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Il 9 ottobre 1963

Vajont, 60 anni fa la tragedia. La diga, l'onda, i morti, i soccorsi vicentini

Il 9 ottobre 1963, alle ore 22:39, una frana gigantesca (oltre 270 milioni di metri cubi di roccia) si stacca dal monte Toc e precipita nel sottostante invaso del Vajont: si sollevano tre enormi onde, di cui una, precipitando verso Longarone, devasta ogni cosa e provoca 1.910 vittime
La tragedia del Vajont

Il 9 ottobre non è mai un giorno qualsiasi per Longarone e i comuni della valle del Piave. È il giorno del ricordo della tragedia che 60 anni fa sconvolse questi luoghi e l'intero Paese, il disastro del Vajont. Un'onda ciclopica provocata dalla frana del monte Toc nell'invaso idroelettrico che il 9 ottobre 1963, alle 22.39 travolse Longarone, Erto e Casso.

 

Quante furono le vittime?

Ufficialmente vennero annotate 1.910 vittime, 487 avevano da 0 a 15 anni. E fu per questo che quella tragedia fu ribattezzata «la strage dei bambini». In realtà - hanno sempre spiegato i sopravvissuti e i superstiti - il numero dei morti fu imprecisato, forse oltre i 2.000, perché molte salme non furono mai trovate. Ancora: 817 vittime non sono mai state identificate. Polverizzate. Le vittime furono travolte dall’onda di acqua e fango sollevata da una gigantesca frana precipitata nel bacino ai piedi del monte Toc. 

Una delle cose più singolari del disastro fu il numero ridottissimo dei feriti. Chi venne travolto dall'acqua, morì. La percentuale di coloro che si salvarono fu infinitesimale. Per questo gli obitori erano pieni mentre gli ospedali ospitarono pochi pazienti.

 

La notte maledetta

È il 9 ottobre 1963. Nei piccoli paesi ai piedi della diga la gente è in casa, l'autunno è alle porte e la sera comincia già a fare freddo. Era un mercoledì di Coppa, nei bar tutte le tv erano sintonizzate su Real Madrid-Rangers Glasgow. A una cert’ora i carabinieri avevano chiuso la strada per Erto. Bastano tre righe della giornalista Tina Merlin: «La storia del "grande Vajont", durata vent’anni, si conclude in 3 minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime». Quelle stesse parole accompagnano oggi il visitatore nel museo di Longarone.

 

Uno tsunami sul paese

Alle 22 dalla montagna si stacca una quantità di roccia il cui volume è quasi doppio rispetto a quello dell'acqua contenuta nell'invaso e che cade nel bacino ad una velocità di 110 chilometri orari. L'onda che si crea è alta 250 metri e si abbatterà sui paesi e le frazioni sottostanti della valle del Piave, cancellando il paese di Longarone e i comuni limitrofi. 

 

La curiosità

A quel 9 ottobre 1963 seguirono anni drammatici, per molti di esilio forzato. Nel 1971 nacque Vajont, il più piccolo comune per dimensioni in Italia. È vasto un solo chilometro quadrato. Fu Maniago a cedere quell'area, apposta per ospitare gli sfollati: sorge a una quarantina di chilometri dal lago omonimo inghiottito dalla frana che scese dal monte Toc. Chi non volle spingersi in pianura, cercò di ripartire tra le mille difficoltà che il nome, Erto, ripido, porta storicamente con sé. Situato a 800 metri sul livello del mare, dopo la frana era diventato un luogo quasi inaccessibile.

 

La diga, capolavoro di ingegneria

La diga del Vajont coi suoi 264 metri è la quinta più alta del mondo, nel 1963 era la più alta di tutte. Attualmente in disuso, nel suo bacino non ha più acqua, ma un pezzo di montagna precipitato nell’invaso. 

Il Vajont è stato uno dei disastri più tragici della storia italiana recente. Nel 2008 l’Unesco lo ha incluso, al tempo, tra i cinque più gravi disastri ambientali di natura antropica, definendolo «un classico esempio di quello che succede quando gli ingegneri e i geologi si rivelano incapaci di cogliere la natura del problema che stanno cercando di affrontare». 

In effetti, la diga del Vajont è ancora lì, solo scalfita dalla frana, a dimostrazione che non basta un’opera di alta ingegneria per evitare il disastro: a crollare, infatti, non fu la diga ma la montagna, come d’altronde in tanti temevano.

La tragedia del Vajont

 

Vicenza e i soccorsi

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Nelle ore successive alla tragedia Vicenza fu in prima linea nei soccorsi, con i vigili del fuoco, il reparto mobile della polizia, gli alpini di Bassano, enti e privati, semplici cittadini. Ma nella gara di solidarietà si distinsero anche i militari della forza tattica dell'esercito statunitense per il Sud Europa, gli unici, all'epoca, ad avere in dotazione elicotteri pesanti, in grado di trasportare persone, materiali e generi di prima necessità. Furono 4350 gli uomini e le donne portati in salvo dagli aeromobili americani nelle valli del Piave e del Vajont; 180 le tonnellate di viveri, vestiario e medicinali distribuite alle popolazioni colpite dalla tragedia. A Belluno non c'erano aeroporti e il campo per elicotteri della Setaf era l'unico per fare arrivare i soccorsi in tempi rapidi.

 

I ricordi degli alpini vicentini

C'è chi la vita l'ha persa, e c'è a chi il Vajont ha cambiato la vita. Come ai primi soccorritori, per esempio. In questo il dramma parla molto anche vicentino.

Ad essere allertati e a partire immediatamente, infatti, furono i soldati della Brigata Alpina “Cadore”, i cui reparti e le caserme erano sparsi in tutto il Bellunese e nel Feltrino: l'80 per cento dei suoi effettivi erano vicentini. Partirono nella notte a bordo di centinaia di camion, in un clima d'incertezza tra frammenti di notizie e paura.

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«Scoprimmo solo al nostro arrivo a Ponte delle Alpi che una frana era caduta nel bacino artificiale causando l'onda che si riversò a valle. All'inizio sospettavamo che i terroristi altoatesini avessero minato e fatto saltare la diga», ricordava Piergiorgio Nardi di Grumolo delle Abadesse. 

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La storia

Il rumore, l’onda di fango, il morso della morte. I ricordi di un bambino di 10 anni sopravvissuto per miracolo al disastro del Vajont, 60 anni fa, rimasti come uno stigma indelebile. Dopo sessant’anni quel bambino, Gino Mazzorana, oggi 70enne, ha ritrovato per caso chi lo salvò in quella terribile notte. Si tratta di Feliciano Antoniazzi, penna nera di Arzignano, all’epoca ventunenne, militare del genio a naia, tra i primi a giungere sul posto appena avvenuta la catastrofe.

«Ci siamo trovati per caso» racconta Feliciano Antoniazzi. «Ogni quattro o cinque anni torno al Vajont dove ho partecipato alle operazioni di soccorso. Come altre volte, ho visitato il cimitero di Fortogna ed il museo. Parlando con la guida, un signore sulla settantina, ho raccontato di aver salvato un bambino intrappolato nelle macerie. È stato lì che mi ha detto che quel bambino era proprio lui. Il racconto, la posizione, i dettagli, coincidevano. “Quel bambino ero io”, mi ha detto». 

Gino Mazzorana è uno dei pochi bimbi usciti da quell’apocalisse. Oggi fa parte del “Comitato sopravvissuti Vajont”. La sera del 9 ottobre 1963 era a letto con il fratello minore, di tre anni. D’improvviso un rumore assordante, la casa trema. Il tempo di gridare «mamma, aiuto», poi la distesa di fango e silenzio. Venne ritrovato sotto a macerie, bloccato da una trave, a cento metri dall’abitazione. Aveva perso i genitori, il fratellino e anche uno zio. Fu la squadra dei militari di cui faceva parte Antoniazzi a metterlo in salvo.

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L'inchiesta giornalistica

«Tutti sapevano, nessuno si mosse» scrisse la giornalista Tina Merlin subito dopo la tragedia. Una donna integra, giornalista e partigiana. Fu proprio la Merlin, infatti, che iniziò a scrivere degli articoli di denuncia sul pericolo della diga per la valle, preannunciando un disastro ambientale senza precedenti. Già agli inizi degli anni ’50 scrisse una serie di articoli per l’Unità sulla prepotenza della Sade (azienda elettrica privata di proprietà del conte Giuseppe Volpi di Misurata) nelle zone d’interesse montano, sull’esproprio delle terre dei contadini costretti ad emigrare e sulla messa in sicurezza dei paesi dell’area dolomitica del Veneto.

Da qui al Vajont il passo è breve. Con le sue denunce, partono le prime interrogazioni politiche ma le risposte continuano ad essere tutte rassicuranti. Anzi, la Merlin viene sempre più osteggiata e il progetto, naturalmente, continua. Parallelamente, però, continuano anche le scosse, le crepe. Poi, il disastro: è il 9 ottobre 1963. Il suo libro: "Sulla pelle viva"

 

La cerimonia di commemorazione

Il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, interverrà alle celebrazioni per l’anniversario della tragedia del Vajont, che si terranno a Longarone lunedì 9 ottobre, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Il programma avrà inizio al cimitero di Fortogna, dove Zaia arriverà alle 10 per attendere e accogliere il Capo dello Stato. Attorno alle 11.30 le autorità si sposteranno sulla diga del Vajont, a Erto e Casso. Dopo una visita all’ingresso del coronamento della diga, si raggiungerà l’”area teatro“, nota anche come Piazzale Paolini, sottostante la chiesa di Sant’Antonio da Padova, dove è allestita una tensostruttura per ospitare gli interventi istituzionali.

 

Le parole di Zaia

«Sono trascorsi sessant’anni dal 9 ottobre 1963 quando la nostra Terra è stata lacerata da una ferita tremenda, ancora oggi non rimarginata in tanti animi. Da quel giorno i nomi di Vajont e di Longarone sono tristemente scritti nella storia del Paese e contemporaneamente sono entrati indelebilmente nei nostri cuori e nella nostra memoria collettiva».  

«Questo anniversario ci porta, ancora una volta, a misurarci con una delle peggiori sciagure causate dalla colpevole presunzione dell’uomo di poter piegare la Natura ai suoi interessi, anche a costo di un rischio immane». 

«In questa amara riflessione, rivolgiamo alle vittime un deferente ricordo, un pensiero alle loro famiglie e a tutti sopravvissuti, immensa gratitudine ai tanti soccorritori accorsi. Non ultimo, riconfermiamo tutta la nostra ammirazione a chi, rimboccandosi le maniche, ha vinto il dolore e ha avuto la forza di andare avanti e ricostruire». 

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Dal Vajont all'alluvione in Emilia Romagna: a Longarone una mostra fotografica

Due tragedie: così diverse e lontane nel tempo. Eppure così vicine. Da un lato, il disastro del Vajont. Dall’altro, l’alluvione che ha coinvolto l’Emilia Romagna, lo scorso maggio. E così, in un incontro tra epoche e mondi apparentemente differenti, ecco che le immagini di Giuseppe “Bepi” Zanfron, sulla catastrofe del 1963, si intrecciano con quelle di una giovane fotografa faentina: Nicoletta Valla, mirabile nel ritrarre l’evento calamitoso che ha coinvolto la sua terra.
Grazie a loro, a “Bepi” e a Nicoletta, prende forma la mostra fotografica “Testimoni del tempo - Quando le immagini raccontano la storia” al Centro culturale “Parri” di Longarone; l’esposizione verrà inaugurata venerdì 13 ottobre (ore 18) e rimarrà aperta fino alla fine del mese.

Con questa iniziativa Assostampa Belluno e Sindacato giornalisti Veneto - in collaborazione con Pro loco e Comune di Longarone e Fondazione Vajont – intendono ricordare, nel 60° anniversario, la sciagura del 9 ottobre con i suoi 1.910 morti e stimolare riflessioni, analisi e confronti su come è cambiato - o è rimasto uguale - il racconto di eventi così drammatici attraverso la lente del fotogiornalismo.

Sarà quindi l’occasione per rivedere le immagini di Zanfron, il primo fotoreporter a raggiungere i luoghi del Vajont dopo la terribile ondata che ha portato lutti e distruzione. Immagini che hanno fatto il giro del mondo, di grande impatto emotivo, rispettose e rigorose nel delineare i contorni di un disastro epocale.

Oggi come allora, le foto professionali raccontano, indagano, scuotono le coscienze. Oggi come allora, «per non dimenticare»

Andrea Mason

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