<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">

«Vajont, otto giorni tra i morti»

9 OTTOBRE 1963. Sei vicentini erano militari di leva nel Bellunese e nel Feltrino: stasera a Grumolo delle Abbadesse racconteranno i soccorsi. Il ricordo della frana nelle voci di chi era alpino, appena ventenne: «A mani nude tra le macerie, nudi erano i corpi straziati»
Gli alpini dal Bellunese e dal Feltrino furono i primi ad intervenire già nella notte del 9 ottobre
Gli alpini dal Bellunese e dal Feltrino furono i primi ad intervenire già nella notte del 9 ottobre
Gli alpini dal Bellunese e dal Feltrino furono i primi ad intervenire già nella notte del 9 ottobre
Gli alpini dal Bellunese e dal Feltrino furono i primi ad intervenire già nella notte del 9 ottobre

Vajont, 50 anni dopo: tra ricostruzione e memoria. Cosa possa ancora raccontare oggi la tragedia che il 9 ottobre del 1963 strappò la vita a 1910 persone, 460 bambini, è difficile misurarlo.  Vuoi per le dimensioni di un disastro che non risparmiò né donne né uomini, né anziani né animali; vuoi per l'idea d'interi nuclei familiari spazzati via nel cuore della notte mentre già, raggomitolati nei loro letti, pensavano al domani. Un domani che non c'è mai stato e le lancette dell'orologio ferme ancora alle 22,39. C'è chi la vita l'ha persa, e c'è chi il Vajont ha cambiato la vita. Come ai primi soccorritori, per esempio. In questo il dramma parla molto anche vicentino. Ad essere allertati e a partire immediatamente, infatti, furono i soldati della Brigata Alpina “Cadore”. I cui reparti e le caserme erano sì sparsi in tutto il Bellunese e nel Feltrino: l'80% dei suoi effettivi erano vicentini.  Partirono nella notte a bordo di centinaia di camion, in un clima d'incertezza tra frammenti di notizie e paura. «Scoprimmo solo al nostro arrivo a Ponte delle Alpi che una frana era caduta nel bacino artificiale causando l'onda che si riversò a valle. All'inizio sospettavamo che i terroristi altoatesini avessero minato e fatto saltare la diga» ricorda Piergiorgio Nardi di Grumolo delle Abadesse. Lui, caporale del 7° Reggimento Alpini a Feltre, fu solo uno dei tanti vicentini. Proprio stasera, Nardi con Bruno De Franceschi, Gino Manfrin, Piergiorgio Riello, Lino Faccin, Vincenzo Mateazzi, racconterà i ricordi di quei momenti (al teatro parrocchiale di Grumolo delle Abbadesse, ore 20,30).  «Avevamo tutti 20 anni o giù di lì. Non eravamo preparati alla morte, non in quel modo almeno - spiega Nardi - Rimanemmo a Longarone otto giorni, dormendo al freddo in tende o in sistemazioni improvvisate. Non a tutti erano state fornite delle coperte e spesso il cognac suppliva alla lana». Anche per darsi coraggio. «Il nostro primo compito era cercare sopravvissuti. In secondo momento dovevamo radunare i cadaveri. Se avevano dei documenti addosso li identificavamo. Diversamente, dovevamo segnalarli con un numero progressivo» ricorda Nardi con la voce rotta dall'emozione. «Durante il giorno lavoravamo a mani nude perché guanti non c'erano. Così come nudi erano i corpi straziati estratti dalle macerie e lungo gli argini del fiume. Solo molte dopo, alla luce delle fotoelettriche o delle luci dei fanali degli automezzi, ci si lavava con un disinfettante diluito nell'acqua. Il rubinetto era una canna di gomma attaccata a un auto cisterna militare. Lo stesso era poi usato sulle macerie. Tutto era così irreale, così terribile». E più si ripensa a quelle ore infinite di 50 anni fa, più affiorano nella mente dettagli dimenticati. «Ci fu ordinato di passare di casa in casa, o in quello che restava, per cercare denari, monili d'oro, oggetti preziosi in genere. Poi dovevamo segnare le coordinate di dove li avevamo raccolti e consegnarli alle autorità. In un primo momento si pensava che fossero destinati agli eredi. Poi ci spiegarono che la preoccupazione principale era evitare che le proprietà fossero preda di atti di sciacallaggio».  Piergiorgio Nardi ricorda e trova la forza di raccontare. C'è chi come Luigi Campana di San Nazario, alpino anche lui in servizio al 7° Reggimento ricorda che Longarone lui c'era e da allora non c'è più tornato. Ma che solo a pensarci è scosso da brividi. Poi la voce si ferma e il dolore impedisce qualsiasi altra considerazione. 50 anni dopo il Vajont parla ancora vicentino. Sottovoce, oggi, come lo fu allora.

Federico Murzio

Suggerimenti