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PRIMAVERA REPRESSA IN SUDAN

Un manifestante per la democrazia durante una delle proteste organizzate nella capitale del Sudan Khartoum. I militari e gli squadroni di janjaweed hanno attuato una dura repressione nei confronti della gente  scesa in piazzaImpiegati sudanesi nello sciopero generale a Khartoum
Un manifestante per la democrazia durante una delle proteste organizzate nella capitale del Sudan Khartoum. I militari e gli squadroni di janjaweed hanno attuato una dura repressione nei confronti della gente scesa in piazzaImpiegati sudanesi nello sciopero generale a Khartoum
Un manifestante per la democrazia durante una delle proteste organizzate nella capitale del Sudan Khartoum. I militari e gli squadroni di janjaweed hanno attuato una dura repressione nei confronti della gente  scesa in piazzaImpiegati sudanesi nello sciopero generale a Khartoum
Un manifestante per la democrazia durante una delle proteste organizzate nella capitale del Sudan Khartoum. I militari e gli squadroni di janjaweed hanno attuato una dura repressione nei confronti della gente scesa in piazzaImpiegati sudanesi nello sciopero generale a Khartoum

Quello che da qualche mese sta succedendo in Sudan ricorda maledettamente il canovaccio delle varie primavere arabe viste tra Nord Africa e Medio Oriente. Un dittatore feroce come Omar al-Bashir, peraltro ricercato dalla corte dell’Aja per crimini contro l’umanità, le proteste senza soluzione di continuità della piazza a Khartoum, l’intervento dei militari: tutte tappe già viste dalla Tunisia all’Egitto fino in Siria, con esiti via via altalenanti e, alla fine di fatto sconfortanti. E pensare che l’uscita di scena di al-Bashir, dopo trent’anni di potere, era sembrata incruenta, con delle semplici dimissioni, per quanto indotte dalla convincente persuasione dell’esercito. Dopo quattro mesi di manifestazioni nella capitale, l’uomo forte del Sudan ha capito che era il momento di farsi da parte. «Le tappe dei suoi trent’anni di dominio – aveva riassunto Pietro Del Re su Repubblica - si possono riassumere nei massacri da lui perpetrati. Da quello nel sud del Paese, in una delle più lunghe e cruente guerre del XX secolo, finito con la nascita del Sud Sudan; a quello nel conflitto del Darfur, dove il genocidio attuato nei confronti della popolazione non afro-araba ha portato alla morte di circa 400 mila persone». MILITARI. Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? Macché, il rischio è che il peggio debba ancora venire. I militari che hanno riportato la “legalità” nel Paese non hanno visto la protesta scemare, anzi. E negli ultimi giorni le violenze sui manifestanti hanno superato il livello di guardia, al punto da indurre l’Unione africana a sospendere il Sudan. La repressione scatenata dai militari e dagli squadroni ricostituiti dei janjaweed, ora ribattezzate Forze di sostegno rapide, ha portato il bilancio delle vittime a superare quota 100. Il Nilo ha restituito i corpi di almeno 50 manifestanti uccisi e torturati. Questa strana coalizione schierata contro chi invoca elezioni e democrazia vede uniti, si fa per dire, il capo della giunta militare ora al governo, Abdel Fatteh al Burhan, e il temutissimo Mohamed Hamdan Daglo, meglio conosciuto come “Hemeti”, da cui prendono ordini i janjaweed, anche se il primo è in qualche modo più attento, se così si può dire, alle rivolte di piazza mentre al secondo viene imputata una strategia spietata, come testimonierebbero le brutali violenze dei suoi squadroni. LE POTENZE. Al di là di quel che sta succedendo in Sudan, sullo sfondo emerge quello che è lo scenario del potere attualmente gestito in Medio Oriente. Non è un caso, come ha rilevato Daniele Raineri su Il Foglio, se a fine maggio abbiano invitato al Burham per un incontro alla Mecca. E «qualche giorno prima al Burham era stato al Cairo per incontrare il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, e ad Abu Dhabi per parlare con Bin Zayed e un suo vice era volato dai sauditi dove poi era andato anche lui». LA GESTIONE. Il punto, se vogliamo indossare gli occhiali della primavera araba, è proprio la coincidenza di questi tre Paesi decisivi nella gestione della politica dell’area: Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi. Tutti Paesi in cui la richiesta di democrazia proveniente dalle masse è stata respinta al mittente, nel caso dell’Egitto con un passaggio intermedio tradotto con la vittoria dei Fratello musulmani, estremisti islamici eletti in modo democratico ma incompatibili con la stessa democrazia. Insomma, un “incidente” di percorso ritenuto sufficiente per indurre Riad, Il Cairo e gli Emirati a virare verso una repressione ferrea contro qualsiasi tentativo di ribellione. E guarda caso, a pochi giorni dalla visita del generale sudanese a questi tre paesi, a Khartoum è iniziata la strategia del pugno di ferro con il Nilo che restituisce 50 cadaveri con evidenti segni di sevizie. La piazza non va blandita, va neutralizzata. Con qualsiasi mezzo. In primavera e in tutte le altre stagioni. L’influenza dei Paesi del Golfo si estende anche in altri Paesi, come Libia e Yemen, non a caso ridotti allo stremo delle forze. A queste latitudini la primavera pare spenta per sempre. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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