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L’avvocato e il
buco nell’ozono

L’avvocato Vittore d’Acquarone,denunciato per due colpi di fucile
L’avvocato Vittore d’Acquarone,denunciato per due colpi di fucile
L’avvocato Vittore d’Acquarone,denunciato per due colpi di fucile
L’avvocato Vittore d’Acquarone,denunciato per due colpi di fucile

(...) delle sue origini patrizie, dal 1988 soleva rinnovare ogni anno la tessera del Pci. Il risarcimento richiesto - 100 milioni di lire, circa 97.000 euro a moneta di oggi - non era di per sé stratosferico. Ciononostante, trattandosi della mia prima querela, ci feci una mezza malattia. Ne uscii guarito grazie a un’assoluzione con formula piena «per non aver commesso il fatto». Invece il direttore del Corriere, Misha Kamenetzky, alias Ugo Stille, fu condannato per omesso controllo sul titolo: 1 milione di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e alla rifusione dei danni morali.

A cinque mesi esatti dalla sentenza che aveva in parte accolto le sue ragioni, il duca morì (la luttuosa coincidenza dovrebbe sortire un qualche effetto deterrente sui potenziali querelanti futuri). Mi dispiacque, anche perché, prima delle ostilità, avevo avuto modo di conoscerlo a una cena in casa di amici comuni. Mi era parso una persona elegante, sensibile e mite, un vero aristocratico, non a caso per un lungo tratto della propria vita si era ritirato dagli affari di famiglia, preferendo coltivare fiori a Sanremo.

In quell’occasione conviviale lo accompagnava la moglie Maria Emma De Luca, madre di Zeno e Vittore, fratellastri di Pier Filippo, nato a New York nel 1957 dal precedente matrimonio di d’Acquarone con Emanuela di Castelbarco Pindemonte Rezzonico, figlia di Wally Toscanini e dunque nipote di Arturo, il celeberrimo direttore d’orchestra. Giornalista, già conduttore del Tg4, il primogenito ha ereditato dal padre non solo il titolo di duca ma anche la signorile sobrietà: m’è capitato di vederlo cenare da Renato, un ristorante di pesce a gestione familiare sulla statale Verona-Vicenza, e fare la spesa dal fruttivendolo.

Ciò che so della casata l’ho appreso dai libri di storia e dalle pagine di cronaca. Nella storia ci entrò con Pietro d’Acquarone, nato conte a Genova nel 1890 e divenuto duca nel 1942, che fu senatore del Regno e ministro della Real Casa dal 1939 al 1944. Consigliere di re Vittorio Emanuele III, si diede un gran daffare affinché il sovrano revocasse la guida del governo a Benito Mussolini e ordinasse l’arresto del dittatore. Ma in Veneto è tuttora ricordato più che altro per aver rimpiazzato il suocero Cesare Trezza di Musella alla guida della ditta Trezza, società anonima finanziaria specializzata nell’esazione dei dazi, divenuta, a cavallo fra le due guerre mondiali, la più importante azienda privata di riscossione dei tributi, titolare di appalti in oltre 700 Comuni, fra cui Genova, Firenze, Verona, Napoli e Palermo, tant’è che nella memoria dei più anziani resta impressa la domanda di rito con cui i genitori respingevano le loro pretese economiche: «Ma chi te crédito de èssar, el fiól del Tressa?».

Nella cronaca (nera) la famiglia d’Acquarone fu precipitata in un pomeriggio del gennaio 1968, quando il fratello del duca Luigi Filippo, il conte Cesare, 42 anni, fu ucciso a pistolettate dalla suocera Sofia Bassi Celorio, mentre nuotava nella piscina della villa di proprietà dell’avvenente moglie Claire Diericx, ad Acapulco, in Messico. L’assassina si difese sostenendo che s’era trattato di una disgrazia, ma i cinque proiettili conficcati nel corpo della vittima rendevano inverosimile il racconto. Tant’è che fu condannata per omicidio e scontò 11 anni di reclusione in una cella dotata di aria condizionata, dove ingannava il tempo dedicandosi alla pittura.

Dopo aver richiamato alla memoria un così tragico evento, m’imbarazza soffermarmi sulle paradossali circostanze - ridicole se non fossero scandalose - che in questi giorni hanno riportato suo malgrado un d’Acquarone alla ribalta della cronaca. Come accennato all’inizio, l’avvocato Vittore si trova nella situazione di essere stato accostato, quale sparatore compulsivo, alla diabolica suocera che fece secco lo zio.

Che cos’ha combinato di tanto grave? Assolutamente nulla. Il suo unico torto è quello di aver avuto i ladri in casa per ben quattro volte nel giro di appena otto mesi. Non nella romita Musella, bensì nella più affollata zona residenziale adagiata fra la Valdonega e le Torricelle, a Verona. E non soltanto in sua assenza, ma anche mentre stava guardando la tv con la moglie. Durante le incursioni sono spariti un’auto, una moto, un ciclomotore, capi d’abbigliamento e molto altro. Ma il danno materiale è nulla rispetto allo stato d’insicurezza permanente in cui d’Acquarone e i suoi familiari sono costretti a vivere dall’estate scorsa.

All’inizio l’avvocato aveva reagito nel più istintivo dei modi: strillando come un forsennato per farsi sentire dai vicini e inducendo così i malviventi a battere in ritirata. Ma i ripetuti assalti lo hanno costretto a trasformare l’abitazione in una succursale di Fort Knox: serrature a cilindro europeo, impianti di allarme volumetrici e perimetrali, grate alle finestre. In pratica si ritrova agli arresti domiciliari, recluso in casa propria, con la beffa aggiuntiva dei malfattori a piede libero sempre sull’uscio, visto che in questo Paese metterne uno in galera, e tenercelo, è praticamente impossibile.

Fatale che i marioli ci riprovassero a febbraio. Anche in questa occasione all’avvocato d’Acquarone non è rimasto che invocare aiuto a squarciagola. Tuttavia, non potendo sperare che i vicini accorressero a dargli manforte, ha pensato bene d’imbracciare uno dei suoi fucili da caccia, regolarmente denunciati, di uscire in giardino e di sparare due colpi in aria a scopo intimidatorio mentre i banditi scappavano. Notare bene: l’arma era caricata a pallettoni di gomma, proiettili comunque non letali, appositamente studiati «per difesa personale e abitativa», stando alla scheda tecnica della Fiocchi munizioni Spa.

Chiarissimo l’intento puramente dissuasivo del legale pluridepredato, il quale mai ha pensato, neppure per un attimo, di stecchire gli intrusi. Nelle sue intenzioni quei due colpi esplosi verso il cielo equivalevano a un ammonimento: occhio, maledetti, a non ritornare da queste parti, perché sono armato.

Nonostante la professione svolta, d’Acquarone non sembra aver tenuto nel debito conto la severità delle leggi, spesso concepite per tutelare chi commette i crimini e punire chi li subisce. Infatti ora si ritrova dalla parte del torto per l’ipotesi di reato prevista dall’articolo 703 del codice penale. Il quale, anche per via della sintassi, sembra tratto dal digesto borbonico: «Accensioni ed esplosioni pericolose. Chiunque, senza la licenza dell’autorità, in un luogo abitato o nelle sue adiacenze, o lungo una pubblica via o in direzione di essa spara armi da fuoco, accende fuochi d’artificio, o lancia razzi, o innalza aerostati con fiamme, o, in genere, fa accensioni o esplosioni pericolose, è punito con l’ammenda fino a euro 103. Se il fatto è commesso in un luogo ove sia adunanza o concorso di persone, la pena è dell’arresto fino a un mese». Siccome nel caso di specie ha agito durante un raduno di delinquenti, in linea teorica non mi sentirei di escludere una condanna al gabbio.

La disavventura giudiziaria occorsa all’avvocato d’Acquarone si sarebbe prestata per una pièce di Achille Campanile, campione nostrano di teatro dell’assurdo. Sennonché essa pone una sequela di interrogativi. Chi arresterà i trombini di San Bortolo delle Montagne che sparano allegramente tra la folla con i loro possenti «pistoni», più simili a cannoni che a schioppi? Chi denuncerà gli amministratori pubblici che in occasione della Befana consentono di «brusar la vecia» sulle piazze? Chi trascinerà alla sbarra i parroci che benedicono il fuoco durante la veglia pasquale? Chi verificherà se l’incenso che frigge dentro i turiboli durante le cerimonie religiose sia classificabile come «accensione pericolosa» oppure no?

Da anni impazza la moda, quella sì rischiosa, di liberare in cielo, durante matrimoni e compleanni, centinaia di lanterne cinesi con dentro un lumino acceso, che poi talvolta planano sulle reti di plastica antigrandine o sui fienili, bruciandoli. Non mi risulta che ai sensi dell’articolo 703 del codice penale sia mai stato denunciato uno di questi sconsiderati festaioli appassionati di mongolfiere incendiarie.

Ecco perché, pur conscio che si tratta di una proposta pirica, offro volentieri il calumet della pace a Vittore d’Acquarone, accompagnato dalla mia solidale simpatia. Però stia in campana, avvocato: potrebbero persino accusarla d’aver fatto, sparando in aria, un altro buco nell’ozono.

Stefano Lorenzetto

www.stefanolorenzetto.it

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