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Bassano

Omicidio Tassitani, il killer esce in permesso

Concesse dieci ore di libertà a Michele Fusaro. Con lui don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova dove deve scontare trent'anni

L'ultima volta che si è parlato di lui è stato a novembre dello scorso anno, quando gli è stata negata la richiesta di liberazione anticipata. La Corte di Cassazione non ha accolto l'istanza che aveva scritto di suo pugno: Michele Fusaro doveva scontare tutti i 30 anni di carcere che gli sono stati inflitti per l'efferato omicidio di Iole Tassitani, commesso nel dicembre del 2007.

Primo permesso premio per il killer

Ma oggi, anzi, l'altro ieri, l'ex falegname di Bassano del Grappa, che ora ha 56 anni, ha ottenuto e vissuto il suo primo permesso premio. Qualche ora passata in una famiglia. Riaccendendo dolori, rabbia, soprattutto interrogativi: è giusto? Accanto a lui don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova, dove Fusaro è rinchiuso dal 2010. Interpellato per confermare questo permesso premio, non si nasconde.

Don Marco, anche a non voler giudicare, l'idea di Michele Fusaro libero, seppur per qualche ora, stride con il ricordo di ciò che è accaduto a Iole. Ed è proprio da Iole, la sua vittima, che bisogna partire.

«Quello che Michele ha compiuto è abominevole, ha del demoniaco, è bestiale: punto. Sono passati anni, ma ancora oggi ho presenti quei giorni di dicembre: sono vividi e parlanti. E ogni volta mi si ripresentano con una domanda: "Come può un uomo compiere questo?". La domenica, quando in carcere celebriamo la messa, la si celebra sempre per le vittime nascoste dietro i volti delle persone detenute. Iole è sempre stata tra queste. Almeno per me.

Chi è oggi Michele?

«Quando l'ho conosciuto, oltre dieci anni fa, avrei detto: "Un mostro". Oggi, invece, perfeziono la risposta: è un uomo che ha compiuto un gesto mostruoso, questo sì: ma sono convinto che in quella rabbia non si è giocato la sua parte migliore. C'è un margine, ch'è difficile da immaginare da fuori (capisco!), sul quale ci stiamo appoggiando per cercare di calarci dentro questa vicenda per provare a ricomporre i frammenti di una storia tutt'altro che semplice da decifrare. Questo "di più" è stata la fessura che ci ha permesso di fare breccia nel suo mondo e iniziare a scandagliarlo. Non senza la paura di farci del male e di fargli del male. Di fare del male, soprattutto, a chi già soffre tremendamente».

Le ha mai parlato di Iole?

«Dall'inizio, senza che glielo chiedessi: non nascondo che mi ha spaventato questo suo esordio con me. Sempre unito a tre dettagli: il fatto di non perdonarsi il gesto compiuto, di soffrire per il dolore causato alla famiglia, di non voler scappare dal conto che la legge gli ha presentato: 30 anni. Non gli è mai stato risparmiato nulla in tutti questi anni di detenzione: il carcere, quando vuole, sa essere una spietata sala di pugilato.

È pentito?

Il pentimento è una sfumatura della coscienza: soltanto Dio sa leggerla senza il sospetto d'aver frainteso qualche passaggio. Una cosa su Michele, però, mi sento di dirla: da qualche anno, sta prendendo consapevolezza del gesto che ha compiuto. È come si fosse accesa una luce nella coscienza: capita spesso con chi usa questa efferatezza. E, facendosi aiutare, sta cercando in tutti i modi di intravedere una strada dove, per tanti, non c'è più nessuna strada possibile. Questa consapevolezza, quando inizia a far capolino, ti fa vedere i sorci verdi da quanto male fa. Ti porta a bestemmiare il tuo volto prima di tutto.

Ha chiesto davvero perdono alla famiglia di Iole?

Ho letto anch'io sui giornali, in questi anni, dei tentativi maldestri che lui ha provato a fare in tal senso, da solo. Sono convinto che una risposta giusta, data in un momento sbagliato, rischia di diventare una risposta sbagliata. Questo è un delicatissimo lavoro in corso: non lo si può improvvisare con troppa faciloneria. Di sicuro tutto quello che si potrà fare e chiedere a Michele di fare, gli verrà proposto e verrà aiutato a farlo. Poi, com'è giusto che sia, staremo in attesa delle risposte o, anche, di risposte negate. La libertà, da ambo le parti, non si può mai forzare. Al massimo possiamo provare a stimolarla».

Che percorso ha fatto in questi anni?

«Dividerei la sua detenzione in due parti. Nella prima, per come ha potuto, ha tentato di rieducarsi da solo: il suo nome, anche solo a pronunciarlo, scatena ira e rabbia. Ha tante cicatrici addosso. Poi, un giorno, si è aperta una fessura e lì dentro ci siamo infilati: "Se vuoi, Michele, non è ancora tutto perduto nemmeno per te". Non so perché: si è fidato, confidato, affidato. Lì è iniziata la dura risalita: un lavoro di squadra portato avanti da educatori, volontari, psicologi, magistrati, agenti di Polizia Penitenziaria. Il carcere, quando vuole, sa mostrarti anche la sua parte migliore: essere un laboratorio dove si riparano delle storie rotte. Per poi rimetterle sulla strada: non c'è avventura più affascinante e rischiosa al tempo stesso.Rischiosa. Tanti, una volta usciti, tornano a delinquere. In una concessionaria, o in un'officina, tutte le macchine sono belle: occorre rimetterle in strada, però, per vedere se funzionano. Nessuno ha la certezza di non commettere più errori, anche madornali. Come nessuno ha la certezza che chi li ha compiuti torni, per forza, a ripeterli. La rieducazione è fatta di piccoli dettagli da unire assieme: non sempre siamo tutti concordi, ci sono punti di vista divergenti a volte. Anche su Michele. È la discrezionalità del magistrato di sorveglianza che, unendo i dettagli, ha l'autorevolezza per tirare una conclusione. Se tre indizi fanno una prova in negativo, perché tre indizi non potrebbero fare una prova anche in positivo?»

Il carcere, quindi, riesce qualche volta nel suo intento di rieducare?

«Io parlo per il carcere di Padova: più di quanto si pensi. Tenga presente che, a chi delinque, la legge dice "quanto" deve pagare: tot anni. Lo Stato gli dice "dove" pagare: in galera. Ma sarà lui a decidere il "come" pagare in galera: e il "come", per chi sa fidarsi, farà la grande differenza. Ogni giorno vediamo storie risorgere e storie fallire: vincere, per noi, è provarci fino alla fine. Con il maggior numero di storie possibile».

Come avete passato il primo giorno di permesso?

«Per come merita d'essere vissuto: come la naturale prosecuzione di una sfida in corso di evoluzione da anni. Ho coinvolto degli amici che condividono con me il dono della fede: ci hanno aperto la porta, senza chiederci nulla. Una decina d'ore, senza ostriche né champagne: quanto è bastato perché Michele capisse che la vera galera adesso è fuori, non più dentro. E che la strada da fare è ancora irta, ma è possibile».

Il primo permesso premio, per tutti, è una data che rimarrà impressa tanto quanto quella dell'arresto. E quella della mattanza fatta. Cosa le ha detto?

«"Non pensavo fosse così difficile vivere questa giornata". E adesso? Di strada da fare ce n'è a chilometri, ma abbiamo messo il piede in strada. E, in certi viaggi, il millimetro più difficile è il primo. C'è un gruppo di professionisti che, in carcere, silenziosamente lavora con Michele e con molti altri come lui: i loro volti non li vedrete mai, il loro lavoro quasi mai è apprezzato, i loro nomi restano quasi sempre anonimi. La Costituzione Italiana, non il Vangelo, ci unisce tutti in questa sfida. Per quanto mi riguarda, dopo avere accompagnato per anni e sepolto Donato Bilancia, che era il mio "fratello Caino", quel posto adesso è per Michele. Non diventerà mai Abele, rimarrà Caino per sempre: ma noi, con Caino, sogniamo di continuare a vivere, portandoci addosso il profumo e la memoria di Abele. Che non c'è più.

Vive tutto questo come una piccola vittoria?

«No. Avrei preferito non giocare affatto questa partita con Michele. Siccome, però, le sfide me le organizza il buon Dio, non posso fuggire. Neanche adesso che, qualcuno, ci deve pur mettere la faccia in questa storiaccia. Anche solo per dire: "Storie così, mai più!" Soprattutto oggi, ch'è la festa della donna. Di tutte le Iole del mondo, che sono sempre troppe».

Marialuisa Duso

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