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Un anno di guerra

La storia della pediatra ucraina che vive a Vicenza e cura i bimbi via web

Yuliia Samofal, fuggita da Kiev, ora vive a Vicenza. Qui non riesce a esercitare. «Ma grazie al web curo a distanza i miei pazienti, profughi in tutta Europa»
Yuliia Samofal, pediatra, è fuggita dall'Ucraina dopo un mese di guerra e ora vive a Vicenza, dopo essere stata a Schio. Qui è a Ponte Pusterla
Yuliia Samofal, pediatra, è fuggita dall'Ucraina dopo un mese di guerra e ora vive a Vicenza, dopo essere stata a Schio. Qui è a Ponte Pusterla
Yuliia Samofal, pediatra, è fuggita dall'Ucraina dopo un mese di guerra e ora vive a Vicenza, dopo essere stata a Schio. Qui è a Ponte Pusterla
Yuliia Samofal, pediatra, è fuggita dall'Ucraina dopo un mese di guerra e ora vive a Vicenza, dopo essere stata a Schio. Qui è a Ponte Pusterla

Yuliia è fuggita dall'Ucraina una mattina di marzo del 2022. «L'ho fatto per mia figlia: non doveva vedere la guerra». Ha portato con sé tutto ciò che doveva e poteva: la piccola Marina, la suocera, un'amica, tre gatti, il cellulare, un bagaglio mai sufficiente, un groppo in gola e una speranza, quella di tornare presto a casa e rivivere in pace. Yuliia Samofal ha 35 anni, è sposata e mamma di una bambina di 8. È una pediatra, si prende cura di centinaia di piccoli pazienti. Lo fa ancora oggi, in forme diverse ma comunque efficaci grazie alle potenzialità del web, anche ora che è esule della guerra scatenata da Putin e, come lei, lo sono «almeno la metà» dei suoi pazienti «sparsi per l'Europa». Lei è scappata da Kiev verso l'Italia perché conosce la lingua, aveva un contatto qui e tramite quello ha trovato una sistemazione, prima a Schio e poi a Vicenza. Lo racconta mentre gira il cucchiaino nella schiuma del cappuccino in un bar del quartiere di San Marco in città, dove ora vive. Quel movimento lento e ripetuto sembra aiutarla a rimettere in fila i tasselli di un anno di vita: l'anno che gliel'ha stravolta.

In questi 12 mesi che cosa è cambiato per lei? 
È stato l'anno più difficile della mia vita. Anche se non sei in Ucraina, pensi alla guerra ogni giorno, ogni momento, pensi ai famigliari e agli amici che sono là. Di solito quando decidi di trasferirti in un altro Paese ti prepari per tempo, pensi a tutto. Quando scappi, invece, lasci tutto indietro.

Torniamo al 24 febbraio 2022, all'invasione russa. Cosa ricorda di quel giorno? 
Ero in Polonia, in vacanza con una collega. Mio marito era rimasto a Kiev con mia figlia. Mi ha chiamato lui alle 6 di mattina e io non capivo. Perché a quell'ora? Mi ha risposto: "Yuliia, è iniziata la guerra". Ma come? "Yuliia, è iniziata la guerra", ha ripetuto. Ho sentito che mia figlia piangeva e i miei gatti che urlavano dall'altro capo del telefono, e mi sono mancate le forze. Loro erano già in macchina, in direzione ovest.

Sono immagini che ha visto il mondo intero: le colonne d'auto in fuga da Kiev quel 24 febbraio. 
Tutti volevano andare verso Leopoli, al confine occidentale, ma non si poteva, c'era troppo traffico. Quindi dopo 300 chilometri si sono fermati a Rivne. Intanto al telefono con loro sentivo le bombe che esplodevano (Yuliia ora si commuove, le capiterà più volte durante questa intervista, ndr). Avevo il cuore pieno di emozioni che non so descrivere: non sapevo cosa fare, mi sentivo impotente.

E cosa è riuscita a fare? 
A Kiev non potevo rientrare, né andare a Rivne: il 25 hanno bombardato anche lì. Allora mio marito e mia figlia sono andati in un villaggio vicino al confine con la Polonia, dalla sorella di un suo socio di lavoro. In quella casa si erano trasferite tante famiglie, era piena di gente: molti bambini, sette gatti, tutti insieme. Mio marito mi ha detto di restare in Polonia, che era meglio per tutti. Ma erano giorni convulsi, non sapevamo se saremmo diventati tutti russi in due giorni. Temevamo di perdere tutto, l'attività di lavoro di mio marito e la mia.

Lei è pediatra: ci racconta che vita professionale aveva prima della guerra? 
Da poco ho aperto due ambulatori pediatrici di cui sono direttrice sanitaria. Siamo un gruppo di dottoresse, abbiamo tanti pazienti, il lavoro andava bene e mi gratificava. Allo scoppio della guerra ci siamo subito chiesti: come possiamo salvare tutto questo?

La sua attività era inaccessibile in quei giorni? 
Sì, fino al 20 marzo ho vissuto in Polonia. Ma la guerra continuava, Marina non andava a scuola e allora ho deciso: dovevo rientrare e partire. Ho raggiunto mio marito nel villaggio al confine, ho preso mia figlia, mia suocera, un'amica, i miei due gatti, quello della mia amica, abbiamo caricato tutto sull'auto e siamo venute in Italia: a Schio.

Senza mai ritornare a Kiev? 
In quei giorni la zona di Kiev era occupata dai russi, le strade erano bloccate: era impossibile tornare a casa.

Che cosa l'ha spinta a lasciare tutto? La paura? La disperazione? 
Ho pensato solo a una cosa: salvare mia figlia. Lei non deve vedere la guerra, non deve stare sotto le bombe. Deve avere una vita normale, giocare con i bambini, andare a scuola. Per questo sono partita.

Suo marito non poteva uscire? 
No, perché hanno bloccato tutti gli uomini dai 18 ai 60 anni. Lui ha trasferito l'ufficio a Leopoli per poter lavorare: lavora nel settore delle apparecchiature medicali e ce n'è tanto bisogno ora.

Che cosa l'ha portata proprio a Schio?
Un'amica di famiglia ha una casa lì e ci ha dato ospitalità per qualche mese. Marina ha iniziato a frequentare la scuola nella frazione di Ca' Trenta. È stato un sollievo, almeno parziale. Per il resto era tutto sospeso: le mie cliniche erano chiuse, tutti i medici hanno figli ed erano usciti da Kiev. Fino a inizio maggio non abbiamo lavorato, ma abbiamo fatto una grande attività online.

In che senso?
Quasi tutte le pediatre e anche tantissimi pazienti erano fuggiti da Kiev: erano sparsi dappertutto, chi nei territori occupati, chi nell'Ucraina occidentale, chi in Europa. Ricevevamo ogni giorno centinaia di richieste da genitori che non sapevano come aiutare i bambini, sia per le questioni di salute fisica che psicologica.

Avete lavorato gratis?
Sì, abbiamo tenuto questo filo con loro grazie a Instagram, Telegram e altre piattaforme. Poi, un po' alla volta, l'attività degli ambulatori è ripresa quando i russi si sono ritirati dalla regione di Kiev.

Erano i giorni della liberazione di Bucha, e del massacro scoperto...
Erano quei giorni. Le persone sfollate hanno cominciato a rientrare a casa, anche perché chi doveva tornare per darsi un reddito non aveva altra scelta. Quando la situazione è un po' migliorata, anche mia mamma è tornata, ha ripreso a lavorare, fa la psicologa.

Lei ha provato a lavorare in Italia? Siamo senza medici, servirebbero come il pane... 
Quando sono arrivata ho visto che c'era una disposizione del ministero della Salute per i medici ucraini che diceva che potevamo lavorare per un anno, fino a marzo 2023. Ma c'è un problema: il riconoscimento dei nostri titoli di studio. Per questo ci era richiesto di raccogliere tanti documenti, anche il passaporto di rifugiato dell'Unione europea, e poi mandare la domanda.

Lei lo ha fatto?
Certo, ho fatto tutto quello che era richiesto e sto ancora aspettando una risposta. Ad oggi non conosco un solo medico ucraino che abbia potuto lavorare in Italia. Eppure non posso dire che oggi io non lavoro: devo gestire due cliniche a distanza, ho tanti pazienti, e con le email e i social e le riunioni online lavoro tutti i giorni. Come altre mie colleghe: due dalla Polonia, una dalla Germania.

Nel dramma della guerra, questa rete internazionale è un tocco di speranza.
Sì, oggi con la tecnologia si possono fare cose che in passato erano impensabili. Anche perché più del 50 per cento dei nostri pazienti sono all'estero. Questa è medicina privata, che costa un po'. Tutti i nostri pazienti hanno un livello di reddito medio-alto. È successo questo: quasi tutti quelli che hanno possibilità economiche e di lavoro sono usciti dall'Ucraina.

Il fatto che i più poveri sono costretti a rimanere e chi ha un tenore di vita più alto sia uscito dal Paese le crea qualche senso di colpa?
Tutta la gente che ora abita all'estero si sente in colpa: la colpa di essersi messi in salvo. La sentiamo tutti. Io penso sempre ai bambini che sono là, e sento questa colpa. Eppure in altri momenti capisco che chi vive là, per una specie di reazione istintiva, pensa meno alla guerra di chi è scappato.

Trappole burocratiche a parte, com'è stato l'impatto con l'Italia? Si è ambientata a Vicenza?
Amo l'Italia. Ero venuta a visitarla già prima della guerra, mi piacciono molto le canzoni italiane, ho letto libri e visto film italiani. Non posso dire che mi trovo male, anzi. Ma qui non è casa mia: vivo sospesa, non riesco a fare un respiro profondo. Gli psicologi dicono che dobbiamo vivere la vita perché non si sa quanto dura la guerra. Ma non ci riesco.

In questo anno ha mai rivisto la sua casa, la sua famiglia?
Sono tornata a Kiev il 20 ottobre, dopo i bombardamenti. Dovevo sistemare alcune cose di lavoro, ci sono rimasta due settimane. Ho visto tutto, anche le distruzioni. Ora là il problema è l'energia elettrica, salta di continuo. Mio padre lavora in banca, si occupa della parte tecnica: per colpa dei continui blackout non vive più, deve intervenire di continuo: dorme in banca.

A causa della guerra ha perso dei parenti o persone che conosce?
Due persone che conoscevo. E mio cugino ora è in guerra, non so dove, non lo dicono per motivi di sicurezza. Ha 29 anni. Anche altri miei amici sono in guerra...

Tutti invocano la pace, il problema è quale pace. Lei che idea si è fatta?
La guerra è iniziata nel 2014, quando ero incinta, era solo in una parte del Paese. Se adesso si firmasse una pace e quelli restassero territori occupati dalla Russia, la guerra inizierebbe di nuovo e le nostre vite andrebbero presto all'aria un'altra volta. Questo è sicuro. La condizione della pace è l'integrità territoriale dell'Ucraina.

E l'invio di armi da parte dell'Occidente? Condivide?
Le armi servono al nostro Paese per resistere. Credo che da qui non tutti abbiano capito cosa sta succedendo: se i russi conquistano territori in Ucraina poi non si fermano lì, vengono avanti.

Lei cosa prova oggi?
Io vivo come in frigorifero, bloccata. Non posso permettermi di bere un caffè senza pensieri, di sorridere, di parlare delle cose belle, di divertirmi, perché penso sempre alla guerra. Così è come se la vita ti passasse di fianco: la vedi scorrere, ma non è la tua.

Ogni tanto riesce a "salire" sulla sua vita?
(Pausa) No, non ci riesco. Mi chiedo sempre: potrò mai tornare a casa? Tornare al mio lavoro al 100 per cento? E se invece resto qua, cosa dovrò fare? Come sarà il futuro? Per ora restiamo fino alla fine dell'anno scolastico di Marina. È lei la mia bussola. E so che la guerra non deve vederla, anche se lei già sa tantissimo. L'altro giorno è uscita da scuola, era triste. Le ho chiesto perché e lei mi ha detto: "voglio andare nella mia scuola in Ucraina, voglio sentirmi libera". L'ho abbracciata forte. E le ho detto: succederà. L'Ucraina deve vincere questa guerra e poi succederà.

Marco Scorzato

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