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L'intervista

Il vescovo Giuliano Brugnotto: «Voglio una chiesa che parli con i giovani»

di Gianmaria Pitton
L'intervista al nuovo vescovo di Vicenza
Il nuovo vescovo Giuliano Brugnotto  (Foto TONIOLO / COLORFOTO)
Il nuovo vescovo Giuliano Brugnotto (Foto TONIOLO / COLORFOTO)
Il nuovo vescovo Giuliano Brugnotto  (Foto TONIOLO / COLORFOTO)
Il nuovo vescovo Giuliano Brugnotto (Foto TONIOLO / COLORFOTO)

«La prima cosa che ho detto al vescovo Michele (Tomasi, di Treviso ndr) quando ho saputo di essere stato nominato, è stata: “Come farò con i giornalisti, con le conferenze stampa? Io sono negato!”. E lui: “La regola è: quando ti chiedono qualcosa, rispondi sempre”». E mons. Giuliano Brugnotto (anche se lui preferisce il “don”), da domenica scorsa vescovo di Vicenza dopo essere stato vicario generale a Treviso, ieri al suo primo incontro con i media vicentini, ha risposto. Tanto alle domande più minute («quanti anelli pastorali ha a disposizione?»), quanto a quelle più filosofiche («che cos’è il diritto?»), precisando di voler dedicare il primo periodo alla conoscenza delle persone, di quel popolo di Dio che proprio ieri ha festeggiato la ricorrenza della dedicazione della cattedrale; di aver trovato nei primi incontri con il sindaco, con il prefetto, con il questore, una sostanziale condivisione di intenti e di lavoro; di voler “esportare”, dalla sua lunga esperienza a Treviso, l’idea di un viaggio con i giovani in terra di missione. Quanto agli anelli, ne ha tre: uno donatogli dagli orafi vicentini, che portava il giorno dell’ordinazione, uno che gli è stato lasciato in dotazione dal vescovo Pizziol, ma che gli è troppo stretto, e uno che porta abitualmente. «Il diritto? Abbiamo bisogno di regole, ma devono essere fondate su un principio di giustizia. Per questo fa ancora più male vedere episodi come la corruzione in Unione europea, che tocca le istituzioni ai massimi livelli. Un gran brutto segnale».

Le diocesi di Treviso e di Vicenza sono molto simili per caratteristiche sociali ed economiche, entrambe segnate dalle crisi e dall’aumento della povertà. La Chiesa dovrebbe fare di più?
È vero che ci sono delle somiglianze, però ci sono anche molte differenze, dal punto di vista della configurazione abitativa: tutta la zona che la diocesi di Treviso ha verso il Veneziano è ad alta densità abitativa, con problematiche proprie. Qui sto cercando capire com’è fatto il territorio. Immagino che ci siano problematiche simili per quanto riguarda la crisi, che investe le famiglie, il lavoro; per quel poco che ho raccolto, l’impressione che ho è che si stia dando risposta, sia perché la Chiesa ha una presenza molto capillare, sia per la collaborazione con gli enti pubblici, che credo sia fondamentale. Stiamo rispondendo alle stesse persone, sia pure con organizzazioni specifiche proprie e distinzione di funzioni e di ruoli. Negli incontri con le istituzioni è emerso un altro elemento: stiamo gestendo l’accoglienza degli immigrati sempre con criterio di emergenzialità, mentre si tratta di una questione strutturale, che ha bisogno di risposte strutturali, che durino nel tempo.

Anche nella diocesi di Vicenza subiamo il calo delle vocazioni. A cosa è dovuto?
Un primo elemento è dato dal calo demografico generale, che ha un’incidenza. Un secondo elemento è la sfida che la Chiesa si trova ad affrontare con le nuove generazioni, che hanno la percezione di sentirsi estranee al mondo ecclesiale. È necessario mettersi in ascolto delle nuove generazioni per cercare di capire là dove loro cercano un senso. Un terzo elemento: proveniamo da un’esperienza ecclesiale fortemente radicata e molto diffusa, il fenomeno della secolarizzazione giunge un po’ a ondate: la pandemia ha fatto emergere una secolarizzazione alla quale dare risposta, per trovare le forme di una vita evangelica che sia davvero significativa. I giovani sono sensibili, disponibili: trovano adulti capaci di interpretare quello che vivono?

Domenica ha concluso il suo saluto con la disponibilità all’ascolto dei giovani. È anche un problema di linguaggi?
Il linguaggio è uno degli aspetti che coinvolge complessivamente la vita della Chiesa. A volte si utilizza un linguaggio un po’ da tecnici, o da persone che frequentano lo stesso gruppo, mentre i giovani vivono un mondo che ha altri linguaggi. Bisogna uscire dal club chiuso per entrare in relazione con i linguaggi della vita ordinaria della gente: Gesù utilizzava il linguaggio delle parabole, vicende umane che i suoi contemporanei erano in grado di comprendere. Più radicati alla vita concreta, questo il compito che ci attende.

Anche a Vicenza ci sono stati casi di sacerdoti che dopo qualche anno hanno lasciato il ministero. C’è qualcosa da rivedere come formazione in seminario?
Prevedere il futuro è improbabile. La formazione, dal Concilio Vaticano II, è in continuo aggiornamento, anche per la velocità dei cambiamenti della nostra società. Siamo in buon compagnia, in questo, con le realtà secolari. Insieme a tutto ciò, c’è la maggiore consapevolezza della nostra fragilità: forse un tempo si vedeva la vocazione come un monolite stabile, inaccessibile a cambiamenti, mentre tutte le vocazioni sono risposte date in mani fragili. Da un certo punto di vista, è una ferita il fatto che si venga meno a una vocazione; d’altro canto, è abbastanza assurdo che uno resti in una vocazione, che è stata motivo di discernimento ecclesiale, nella quale non si ritrova più. Credo che la Chiesa abbia fatto un certo cammino nel considerare che ci possono essere evoluzioni del cammino vocazionale, che è necessario affrontare. Non proponiamo l’infedeltà, ma neanche la schiavitù. 

È nata l’esperienza delle “messe senza prete”, pensa possa essere una risposta adeguata anche sotto l’aspetto della responsabilizzazione dei laici?
I laici non troveranno maggiori responsabilità o valorizzazione nella misura in cui prendono il posto che non è loro e che spetta ad altri. Ritengo che la figura del presbitero sia fondamentale nella vita di una comunità cristiana. Quello che va radicalmente ripensato è: cos’è essenziale nella figura del prete? Che cosa è possibile invece condividere con altre figure ministeriali? Credo che la diocesi di Vicenza stia facendo un cammino in questo senso. Il ministero del prete ha bisogno di essere ripensato in senso missionario, un presbitero che visita le comunità, le sostiene, le alimenta. La questione di fondo è che la comunità abbiano almeno un po’ di fuoco centrale, che scalda e illumina.

Alla base della nascita delle unità pastorali c’era anche l’esigenza di creare condivisione e fraternità tra i sacerdoti. Lei insiste molto sulla fraternità, è un aspetto che sta venendo meno?
Più che un aspetto che manca, credo sia una forma nuova del ministero presbiterale, forse tornando un po’ di più alle origini. Inizialmente era il vescovo che condivideva con un gruppo di presbiteri la missione pastorale: la fraternità rischia di essere persa di vista quando ciascun parroco ha la sua parrocchia e vive da solo. In un contesto segnato dal forte individualismo, la vita del prete da solo non comunica ciò che è l’essenza del ministero, cioè che siamo un presbiterio, un corpo unico. Le singole fraternità assumono così il primo rilievo di testimonianza all’interno di una comunità cristiana. Questa è la forma della vita evangelica. Qui c’è una bella tradizione sotto questo profilo, e una certa somiglianza con Treviso.

Quando il Papa o i vescovi intervengono su questioni sociali o politiche, c’è sempre chi dice che la Chiesa dovrebbe occuparsi solo della dimensione spirituale. Cosa ne pensa?
Il cristiano è inevitabilmente coinvolto nelle vicende di questo mondo. È chiamato a farsi carico delle situazioni più fragili, di difficoltà, ed esercitare la carità. La distinzione di ruoli tra Cesare e Dio è molto importante, che permette alla Chiesa di vivere in piena libertà. Quando ci sono legami troppo stretti o compromessi, le cose diventano più problematiche. La distinzione non significa separazione: l’approccio all’esperienza cristiana di papa Francesco ha connotati piuttosto consistenti di carattere sociale, che credo siano tanto necessari quanto ci è necessario il Vangelo. Non vedrei molto bene una Chiesa che si astrae rispetto al mondo. Non sarebbe la Chiesa del Signore.

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