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L'intervista

Beppe Faresin: «È incredibile pagaiare nella natura. Ma il fiume stavolta mi ha tradito»

L'uomo del kajak: «La mia vita è un’avventura. Ma in Alaska ho rischiato di morire: i gorghi mi hanno sommerso e credevo di non riemergere».
L'uomo del kayak, Beppe Faresin
L'uomo del kayak, Beppe Faresin
L'uomo del kayak, Beppe Faresin
L'uomo del kayak, Beppe Faresin

«L’acqua è salita fino al collo, la corrente impetuosa mi stava trascinando via, pur sapendo che nessuno avrebbe potuto sentirmi in quella terra deserta, ho gridato: “stavolta muoio”. Non so come, ma sono riuscito a stare in piedi, a trovare una piccola secca, ho raggiunto la riva. Fradicio, infreddolito ma vivo. Ho camminato per due ore, riparando nella riva più alta del Noatek, che improvvisamente dopo 180 chilometri e a 600 dal primo insediamento abitativo è diventato un nemico, un incubo. Ho allestito un campo di fortuna, ho chiamato i soccorsi. Ho pianto. Rientro a casa». Termina così il messaggio, affidato ai social da Beppe Faresin, l’uomo del kajak, appena dopo essere scampato ai pericoli di uno dei fiumi più insidiosi del mondo, che scorre per 680 chilometri tra ghiacci e natura selvaggia nel cuore dell’Alaska. Quanto è successo era imprevedibile, in questa stagione il fiume avrebbe dovuto presentarsi con acque gelide ma tranquille. Una sfida persa, ma l’avventura, quella della vita, continua e Beppe ha potuto riabbracciare la moglie Graziella, le figlie Alice e Anna Viola e gli amati nipotini Azzurra e Achille. La vita è stata spesso per Faresin un’avventura. A 5 anni, con i quattro fratelli, lasciò Sandrigo, per seguire i genitori in Sardegna.

Riassumiamo la sua vita?

Mio padre decise di vendere i tre campi che lavorava e affittare la nostra casa, convinto da un parente a trasferirsi a Pozzomaggiore vicino a Bosa, nel Sassarese. L’obiettivo era fare fortuna lavorando le interiora dei bovini. Il sogno si sgonfiò dopo due anni, il ritorno a casa fu drammatico. Eravamo senza un soldo, senza più i campi e senza casa, visto che l’affittuario si rifiutò di riconsegnarcela. Finimmo ospiti di uno zio che sistemò alla bell’e meglio un portico, ricavando un paio di stanze senza pavimento né elettricità né acqua corrente.

Al Rossi ha frequentato il corso sommozzatori, perché questa scelta?

Pensavo che con quel diploma avrei potuto trovare più facilmente lavoro. Al secondo anno il preside sottopose i mille iscritti ad un test psicoattitudinale, superato da tutti a parte 15. Uno di quelli fui io. Ma alla fine sono riuscito a diplomarmi.

Avventuroso anche il primo impiego.

Fui assunto da una azienda, che curava la manutenzione della parte sommersa delle piattaforme Agip. Mi trasferii a Ravenna, trascorrevo 5-6 ore al giorno sott’acqua, a testa in giù, armato di raschietto per liberare dalle incrostazioni le strutture portanti delle stazioni. Era una sfida quotidiana con il tempo, lavoravamo a cottimo, più si puliva e più alta era la paga, e con le condizioni del mare. Una mattina fui colto da malore, rischiai di morire a trenta metri di profondità. Non sentivo più gambe e braccia, il mio compagno di immersione riuscì a riportami a galla. Pensavano ad una embolia, finii in camera iperbarica. Dopo 24 ore ripresi la sensibilità degli arti. Tre giorni dopo tornai sott’acqua, alla fine della giornata decisi di licenziarmi e partire per la naja.

Smessa la divisa è iniziato il “secondo tempo”.

Fui assunto in Telitalia, azienda di Villaverla che produceva saldatrici. Prima operaio, poi tecnico dimostratore, quindi responsabile dell’assistenza. Nonostante la carriera quel lavoro mi stava stretto, decisi di chiedere al titolare di poter fare il rappresentante. L’unica area libera in Europa era la Scandinavia, mi candidai. Se non proprio una follia fu un azzardo: non ero mai uscito dall’Italia e non conoscevo una parola d’inglese. Tutti cercarono di convincermi a desistere. Nel 1977 presentai le dimissioni e con i soldi del Tfr comprai un’auto usata, ma anche un atlante e cartine geografiche. Indimenticabile la prima trasferta. Milleseicento chilometri tutti d’un fiato fino in Danimarca. Da lì mi imbarcai per la Norvegia e, “masticando” un po’ d’inglese e aiutandomi a gesti, cominciò la mia vita da rappresentante. I primi tempi dormivo spesso in macchina e mangiavo, sempre, al McDonald’s. Il mercato si dimostrò interessante, per fortuna non erano ancora arrivati i prodotti cinesi. Cominciai a vendere non solo saldatrici, ma pure compressori, caricabatterie, idropulitrici, perfino box doccia e cornici per quadri.

Dopo la caduta del muro di Berlino si aprì il mercato russo.

Non sono stati pochi i viaggi a vuoto, ma alla fine sono arrivate le soddisfazioni. In poco tempo prima i Paesi dell’est e poi la Russia sono diventati un mercato importantissimo. Adesso con la guerra si è bloccato tutto.

Ad un certo punto nella sua vita ha fatto irruzione la canoa.

Nel 1977 un amico mi convinse ad acquistare un kajak, non sapevo nemmeno come metterlo in acqua, feci pratica lungo il Bacchiglione. Mi trascinò a discendere il Rodano, 970 chilometri da Briga, in Svizzera, a Marsiglia.Un freddo terribile. Arrivato in Francia mi dissi: “Mai più”.

E poi?

È arrivata la passione. Il battesimo dell’acqua nel 2009 lungo il Po, l’anno dopo il Danubio. Dal 2011 le imprese si fecero più difficili con la discesa del Mississipi, da Minneapolis a Saint Luis, 1400 km in un mese. Qualche mese dopo la vita mi mise di fronte ad un’altra prova delicata, stavolta in gioco c’era la salute. Grazie ai medici ho vinto quella partita e il ritorno in acqua fu un modo per esorcizzare la malattia, forse per questo l’avventura nel golfo del Messico è quella a cui sono più legato. Da New Orleans a Tampa, mille chilometri. Nel 2013 lo Yukon, tra Canada e Alaska, poi i 1200 km. del Murray in Australia, il ritorno all’Europa con la Mosella e il Reno e nel 2019 in solitaria i fiumi Teslin e Yukon. Discesa ai limiti dell’impossibile, per 7 giorni sono rimasto isolato, senza poter incontrare anima viva.

I rischi sono sempre calcolati?

Quanto accaduto in Alaska farebbe pensare di no, ma ogni mia spedizione è frutto di mesi di meticolosa organizzazione, la sicurezza viene prima di tutto. Nel 2017 ho affrontato, con l’amico Simone, il Rio delle Amazzoni. Ci segnalarono la presenza di pirati, decidemmo di abbandonare l’impresa. Qualche giorno dopo una banda assalì mortalmente una collega che pagaiava in solitaria. Il Noatek dimostra che la prima incognita è l’acqua, spesso gelida, agitata, imprevedibile, insidiosa: non ammette l’improvvisazione.

In terraferma bisogna essere pronti a incontri particolari.

Ho sempre con me lo spray anti orso, ma bisogna guardarsi anche dai serpenti, dai ragni, dai lupi, dalle alci e da altri animali non sempre ospitali, quindi bisogna prestare attenzione alla scelta del campo per la notte. Deve essere lontano da orme fresche e bisogna assicurarsi di riporre il cibo in un barile stagno, alloggiato distante dalla tenda. Stavolta ho "lottato" con milioni di zanzare.

Con le sue imprese cosa vuole dimostrare?

Vorrei riuscire a trasmettere l’emozione che si prova nel sentirsi piccolissimi di fronte all’immensità della natura. Spesso piango, di gioia, mentre mi guardo intorno e osservo l’acqua scivolare sotto il mio kayak. Stavolta ho avuto paura di morire, ma ne sono uscito intero, l’avventura continua e potrò raccontare la prossima

Luca Ancetti

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