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«Aiuto, mi hanno portato in Bangladesh»

Una delicata vicenda iniziata con l’appello lanciato via mail da un 12enne
Una delicata vicenda iniziata con l’appello lanciato via mail da un 12enne
Una delicata vicenda iniziata con l’appello lanciato via mail da un 12enne
Una delicata vicenda iniziata con l’appello lanciato via mail da un 12enne

«Mia madre ieri mi ha detto che mi portava dal pediatra e invece stava andando all’aeroporto di Milano Malpensa. Adesso siamo a Dubai. Come faccio con la scuola? Avevo quattro verifiche non ho potuto studiare, neanche ho fatto i compiti. Lo puoi dire alla maestra?». È l’accorato appello via mail che Amal (nome di fantasia) uno studente 12enne dell’Ovest Vicentino ha lanciato a un vicino di casa qualche settimana fa. Portato via dall’Italia, secondo quanto si intuisce leggendo il messaggio, dalla madre in direzione del Bangladesh, Paese d’origine, assieme ai due fratelli più piccolo di lui. Lasciando improvvisamente la scuola, gli amici, i compagni di classe e la città dove aveva sempre vissuto fin dalla nascita. Una mail quella con l’accorato appello, seguita pochi giorni dopo da una seconda comunicazione: «Mi hanno portato in Bangladesh mentendomi. Non so cosa fare, hanno lasciato tutto: vestiti, libri di scuola. Tutto, anche la casa». Da allora non c’è stato più alcun contatto. Un silenzio che dura da oltre un mese. Eppure il rischio reale per i tre bambini di essere portati via c’era. Sembra che il 12enne ne parlasse in alcune lettere, pensierini scritti a casa, sms e whathapp che pare siano stati inviati a Giancarlo Bertola. Testimonianze di un malessere, presunto o reale, che lo stesso Bertola ha raccolto in un corposo dossier e dove il dodicenne raccontava di intimidazioni. «Mi hanno detto cose che non riesco a sopportare, mi volevano buttare fuori di casa però non mi davano le chiavi - ha scritto il giovanissimo in un drammatico messaggio la scorsa estate -. E ci sono tante cose che ho subìto. Ieri ho pianto tutta la notte. All’una di sera ho mangiato un panino con la nutella perché non mi davano da mangiare e io non riuscivo a dormire». Quello di qualche settimana fa è l’ultimo capitolo di una storia iniziata, bene, anni prima quando il 12enne e uno dei suoi due fratelli fanno amicizia all’asilo con il figlio di Bertola, di professione architetto. «Hanno legato subito» spiega l’uomo, che aggiunge che quando hanno iniziato la scuola primaria Amal «è stato bocciato perché non conosceva l’italiano». A quel punto, come racconta il professionista, si offre di aiutare i due ragazzini a fare i compiti. In accordo con i genitori i quali, pur essendo da numerosi anni in Italia conoscevano poco e male la lingua. Fin da subito il primogenito dimostra una spiccata intelligenza e grande curiosità tanto da spingerlo a “divorare” libri e a imparare il gioco degli scacchi, dove nel giro di poco diventa un piccolo campione. Sembra una storia a lieto fine, una bella storia di integrazione in un periodo dove invece le intolleranze razziali sembrano prendere il sopravvento. Ma qualcosa cambia negli ultimi mesi. «Più lui si dimostrava un bravo ragazzo e più aumentava l’insofferenza verso il figlio - prosegue Bertola -: i genitori non accettavano che leggesse libri che suggerivo, non volevano che studiasse. Non accettavano che lui non si riconoscesse più nella loro cultura ma che diventasse un cittadino aperto al mondo». Una situazione che spinge Bertola, come da lui stesso confermato, a rivolgersi alla scuola, poi ai servizi sociali e infine all’ufficio tutela minori dell’Ulss 8 Berica. E dall’ente sociosanitario parte, mesi dopo, «un esposto indirizzato alla Procura». Ma di esposti ce ne sono altri due: uno di Bertola, «inviato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al ministro degli esteri Luigi di Maio» e uno dei genitori dei bambini che accusano il professionista, come l’architetto riferisce, «di voler convertire il loro figlio alla religione cristiana e di trattarlo come se fosse suo figlio». Ma Bertola precisa: «Vorrei solo che i tre bambini tornassero in Italia con la madre e che la famiglia fosse riunita al padre, che è rimasto qui. E vorrei che potessero studiare». Il professionista aggiunge poi di non essersi rivolto alle forze dell’ordine per denunciare la situazione. Perché? Lo spiega lui stesso: «Mi sono rivolto all’organo più competente cioè all’ufficio tutela minori». A quanto pare, il 12enne aveva parlato della sua drammatica situazione anche a maggio, in un tema pare svolto a scuola. Situazione questa smentita categoricamente dai vertici scolastici. «Non ho mai ricevuto alcuna segnalazione sul caso dalle insegnanti», precisa l’ex dirigente della primaria mentre l’attuale dirigente ha preferito «non rilasciare dichiarazioni». Intanto i compagni di classe e i genitori non hanno dimenticato Amal e presto organizzeranno una fiaccolata. Sono in attesa del via libera da parte del Comune. Sta di fatto che in questa vicenda ci sono ancora tanti aspetti da chiarire. C’è da un lato l’allarme lanciato da Bertola, che parla di una storia dai contorni preoccupanti, ma dall’altro c’è una situazione che, in mancanza di elementi di prova a sostegno di quanto scritto dal ragazzino, rientra nella piena legittimità. Se i genitori hanno portato in Bangladesh un figlio di 12 anni non hanno fatto niente di condannabile sul piano giuridico. È la legge a dirlo, oltre che il buon senso, quando attribuisce al padre l’esercizio della patria potestà, cioè la responsabilità genitoriale sul figlio minorenne. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

Antonella Fadda

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