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Se il suicidio diventa un gioco

(...) rosa shocking. Niente asso di spade: la carta vincente è rappresentata da un’ennesima lametta che gocciola sangue.

A produrre Suicidium è l’Officina Meningi, ma si direbbe che i titolari non se le siano spremute molto. Valentino Sergi, 31 anni, di Pordenone, e Michela Coletto, 32, di Ponte di Piave, hanno pure chiesto una donazione di 10.000 euro per il loro «gioco di carte accattivante, macabro e divertente» e l’aspetto sorprendente è che ne hanno raccolti di più, 10.170, a riprova della teoria enunciata da Albert Einstein, fermamente convinto che solo due cose siano infinite: l’universo e la stupidità umana.

I fervidi zuzzurelloni hanno arruolato come disegnatore il pordenonese Marco Tonus, già collaboratore del Vernacoliere, settimanale satirico livornese che ha uno dei suoi punti di forza nella rubrica Mondodimerda, nonché di Emme, defunto supplemento dell’Unità che dichiarava il suo ingrediente principale fin dalla testata. Hanno anche prodotto un filmato in cui due pupazzi - una bambina e un orsacchiotto - cercano di togliere per sempre il disturbo: la prima avvelenandosi e gettandosi dalla finestra; il secondo impiccandosi, annegandosi dentro la lavatrice e sparandosi alla tempia. Infine, essendo l’imbecillità dura a morire, facendosi esplodere entrambi la testa.

Dal regolamento di Suicidium apprendo che i due mazzi si distinguono in 97 «carte azione» e in 13 «carte oggetto», così suddivise: «4 per lametta, 4 per cappio, 4 per veleno, 1 per cabina suicidi». Due le modalità di gioco: «Survive, dove il vostro obiettivo è rimanere l’ultimo in gioco, evitando di suicidarvi (ma spingendo gli avversari a farlo)» e «Depression, dove il vostro obiettivo è suicidarvi per primi (e, di conseguenza, impedire agli avversari di farla finita)». E poi di cretini non ne rimase nessuno, secondo lo schema di Agatha Christie.

Forse i due improvvisati piazzisti della Gillette ignorano quale genere di materia stanno disinvoltamente maneggiando per ricavarci quattro soldi e un briciolo di notorietà. Voglio aiutarli. Una mia parente, insegnante, mi ha raccontato che nel consiglio dell’istituto comprensivo in cui lavora i docenti sono stati costretti ad affrontare, poco prima della pausa estiva, il caso di una ragazzina che si tagliuzzava sistematicamente con la lametta da barba, ora diventata il logo di Suicidium.

Un artigiano che ha eseguito alcuni lavori in casa mia mi ha confidato, non sapendo con chi altro sfogarsi, che la figlia dodicenne si è ridotta nelle stesse condizioni: ricoperta di sfregi. Non potrò mai dimenticare il suo sguardo, smarrito e disperato, nel narrarmi questo dramma senza apparente via d’uscita.

La moda folle si chiama cutting ed è diventata un fenomeno sociale allarmante, epidemico. Si calcola che in Italia almeno 200.000 adolescenti siano dediti a questa forma di autolesionismo, che consiste appunto nel ferirsi braccia e gambe con lamette, forbicine, coltelli, cocci di vetro, chiodi. Nel 90 per cento dei casi si tratta di ragazze fra i 13 e i 16 anni. Il 30 per cento lo fa per emulazione, dopo aver visto sui social network le coetanee che si feriscono.

Lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet ritiene che tagliarsi sia un rito ipnotico e catartico: la lama che scava nella pelle, la vista del sangue, il batuffolo di cotone che si tinge di rosso, la ferita che diventerà un trofeo da esibire.

All’origine dello squilibrio possono esservi varie cause: i litigi in famiglia, il divorzio dei genitori, la rabbia per un’ingiustizia subita, il bullismo a scuola, una delusione amorosa, un insuccesso negli studi. Ma il mastice che tiene insieme questi comportamenti è di tipo informatico: l’ebbrezza principale consiste infatti nello spedire con lo smartphone agli amici le foto delle ferite o nel postarle su Facebook e sulle chat, per dimostrare agli altri d’aver superato una prova del fuoco.

Le mutilazioni diventano il segno di appartenenza a una medesima tribù. Non a caso la scarificazione rituale e le cicatrici che ne derivano sanciscono l’ingresso nell’età adulta fra i karamojong dell’Uganda. Che tuttavia non mi sentirei di elevare a modelli di vita, se non altro perché, come documentò sul campo il comboniano veronese padre Bruno Novelli, grande studioso di questa etnia morto nel 2003, essi bevono latte, sangue e urina dei bovini che allevano.

Fra i teenager spesso il passo successivo è il taglio in profondità, con la lametta che recide le vene dei polsi. Da questo punto di vista gli sciagurati inventori di Suicidium hanno scelto per le loro carte la simbologia più appropriata. Purtroppo, come dimostra il gioco stesso, esistono molti modi per togliersi la vita. Tutti ricorderanno la tragica fine della tredicenne veronese che lo scorso autunno s’è impiccata alla ringhiera del balcone di casa nel giorno del compleanno. Sul suo diario solo una frase: «Morirò con il sorriso sulle labbra».

Mi risulta, da fonti attendibili, che la ragazzina frequentasse sul Web siti e forum riguardanti l’autolesionismo e il disagio giovanile. Alcuni fogli ritrovati dopo il dramma, scritti di suo pugno, confermano che aveva estrapolato dalla Rete frasi inneggianti al suicidio. In particolare si era informata in Internet su come va fatto il «nodo dell’impiccato». Incredibile a dirsi: su faidatemania.pianetadonna.it, che appartiene a Banzai media, società appena rilevata dalla Arnoldo Mondadori editore, il titolo «Come realizzare un nodo scorsoio», accompagnato da dettagliatissime spiegazioni tecniche, è riportato nella stessa pagina che rimanda alla sezione di cucito e alle istruzioni su «Come creare un braccialetto all’uncinetto con perline». Un’avvertenza segnala che «i contenuti pubblicati vengono pagati con tariffe diverse a seconda della categoria editoriale e della loro qualità». Avete letto bene: l’istigazione a impratichirsi nel «nodo dell’impiccato» è addirittura retribuita. Si comincia per scherzo e poi, una volta che si è preso confidenza con la materia, si passa alle vie di fatto.

Siamo alla catastrofe etica. Eppure c’è gente che trova questa situazione divertente, al punto da imbastirci un gioco da tavolo o da caricare su Youtube i filmati che illustrano i vari passaggi dell’arte cimiterial-marinaresca necessaria per riuscire a stringere la gassa fatale.

Rammento ancora che cosa mi disse il professor Luigi Pavan, ordinario all’Università di Padova, fondatore dell’Associazione italiana per lo studio e la prevenzione del suicidio, che da 40 anni guidava la clinica psichiatrica dell’ospedale di Padova e dirigeva una rivista da pelle d’oca, il Giornale italiano di suicidologia: «Non che rimpianga i tempi di Mussolini, di Hitler e di Stalin, quando questo gesto estremo era ufficialmente sparito non solo dalle pagine dei quotidiani, ma persino dalle diagnosi di morte, in quanto incompatibile con un’immagine di razza forte o perché espressione d’infelicità in una società ove per definizione il popolo doveva essere allegro. Però lei non ha idea di quali disastri possono provocare i mezzi di comunicazione trattando questo argomento. Lo dico per esperienza, ahimè». E mi dettò le regole per scongiurare nuovi drammi: «Evitare di presentare il suicida come una vittima o come un eroe romantico. Evitare di descrivere nei dettagli le modalità di esecuzione, che l’aspirante suicida potrebbe interpretare come sicure. Evitare d’indicare motivi precisi o responsabili diretti: quasi mai ve ne sono, nel senso che se ne contano sempre più d’uno. Evitare di consultare i cosiddetti esperti: le loro risposte possono confermare opinioni errate». Chissà che effetto gli farebbe, oggi, essere costretto ad aggiungere: evitare di riderci su.

Il suicidio è la seconda causa di morte fra gli adolescenti. Se i signori di Suicidium pensano davvero che giocare a scopa con le vite degli altri sia spassoso, gli lasciamo volentieri carte, ori, primiera e settebello. E che vadano pure al diavolo.

Stefano Lorenzetto

www.stefanolorenzetto.it

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