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AGOSTINO DI BARTOLOMEI

Diba, lealtà di rigore

Agostino Di Bartolomeo in azione
Agostino Di Bartolomeo in azione
Agostino Di Bartolomeo in azione
Agostino Di Bartolomeo in azione

Una staffilata al cuore. Come quelle che lui, atipico numero 10, piazzava agli angoli delle porte, gonfiandole, quasi spaccandole. Ecco cosa fu la notizia della tragica fine di Agostino Di Bartolomei: una bomba dalla distanza incastrata nel sette, imparabile. Perché lui era letteralmente un uomo di rigore: tanto come li calciava, la sua rettitudine morale era indiscussa. Un campione dall’animo sensibile per il quale Vicenza tra il 1975 e il 1976 fu una piccola ma importante tappa in una radiosa carriera. Talento giovanissimo, fu spedito in terra berica per fare esperienza sognando d’essere un giorno il capitano della propria squadra del cuore, la Roma. Un desiderio che si avvererà, con Diba a portare la fascia al braccio dal 1980 al 1984. Agostino, per tutti Ago, classe 1955, cresce nella periferia romana, tira i primi calci in una piccola società dove gli osservatori della Lupa lo notano per inserirlo nelle giovanili e vince due campionati primavera. Tra il ’73 e il ’75 colleziona pure 23 presenze in prima squadra. Nel 1975 lascia la Capitale per la prima volta, in prestito al Lanerossi in B. Titolare per 33 volte (con 4 reti) in una compagine composta soprattutto da giovani, rinforza le qualità tecniche aggiungendo convinzione ai suoi mezzi. Quando torna a Roma, è un centrocampista completo.

Nei 4 anni seguiti al ritorno da Vicenza, sarà praticamente sempre in campo, conducendo la Roma allo scudetto e sfiorando la Coppa Campioni. Le strade di Ago e del Vicenza torneranno a incrociarsi nel magico 1978 dei biancorossi, e il suo ricordo resterà impresso in un’altra pagina leggendaria: il rigore-duello perso contro l’ex compagno di squadra Ernesto Galli, un missile terra-aria respinto in una classica cornice da festosa bolgia sportiva degli anni ’70 al termine d’un Lanerossi-Roma al cardiopalma terminato 4-3. Indelebili le sue parole di sconforto e complimento pronunciate nei confronti dell’Ernestone: «In allenamento non me ne parava uno». «Diba tirava forte ma non troppo angolato – ricorderà in proposito Galli anni dopo – Ci misi i pugni, e riuscii a respingere il pallone. Partita vinta, entusiasmo a mille, pubblico in festa. Una gran giornata, insomma». Diba ha la schiena dritta, in campo è un esempio di lealtà e correttezza, sa rapportarsi con compagni, avversari e gli arbitri. Di fronte ai microfoni rimane lucido e misurato. Legge, ama informarsi, approfondire, dipinge e compone poesie, è insomma un atleta nel corpo e nella mente. La sua carriera scivola via: 3 anni al Milan, senza trofei, poi una salvezza ottenuta in A col Cesena e infine la Salernitana in C1, nell’89-90, guidando i granata a una storica promozione in B. Terminata la carriera frequenta il corso allenatori di Coverciano, parla di Sport come materia da inserire nel ciclo dell’istruzione obbligatoria e lavora a lungo sul progetto d’una scuola calcio dove educare, non solo sportivamente, i ragazzi e che realizzerà parzialmente a Castellabate (Salerno). In mente ha tanti progetti. Resta autentico, ma è sempre più distante da un calcio che sta andando in un’altra direzione. S’è guadagnato la stima e il rispetto di tanti campioni solo coi silenzi e i giusti comportamenti, senza urla e atteggiamenti sopra le righe, ma quel maledetto 30 maggio del 1994, 10 anni esatti dopo la sconfitta nella finale di Coppa dei Campioni, arriva la tragedia umana.

Il Capitano per antonomasia, quello che tutti vorremmo nella nostra squadra perché non ha paura di sistemare il pallone sul dischetto per tirare il rigore più importante, decide di uscire per sempre dal campo della vita. È un addio sconvolgente. Uno sparo nel buio che lacera anche chi gli ha voluto bene. Da 27 anni.

Saverio Mirijello