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l'intervista

Donatella Rettore, dalla tv in Germania con Battisti a Sanremo con La Sad: «Ero, sono e sarò sempre indomabile»

In attività sin dai primi anni settanta, nota per il suo stile dissacrante e ironico, fu tra le prime artiste italiane a capire l'importanza dell'immagine, all'avanguardia e aggressiva, e della performance

«Non capisco perché tutti quanti continuano/ stramaledettamente a chiamarmi Donatella...» Così cantava Miss Rettore nel 1981. Prima vera hit ska in Italia. La riprova dell’unicità di una diva alternativa che dopo tanto tempo (qualche anno da allora è passato, e mode ancor di più) rimane inafferrabile. Rock? Decisamente. Punk? Certo. Electro? Un po’. New Wave? Anche. Pop? Ovvio! All’avanguardia, sempre, per estetica e poetica.

In «Dadauffa. Memorie agitate», la sua autobiografia, Dada (così la chiamano tutti o quasi) ha raccontato la sua vita scoscesa. Elettrizzante come le sue ultime apparizioni sanremesi: in gara con Ditonellapiaga (e il gap generazionale proprio non si notava), guest star di La Sad nella serata dei duetti del Festival di tre settimane fa (un omaggio all’irriverenza senza tempo di «Lamette»).

«La Sad... Quei ragazzi li adoro», sorride Dada, Donatella, Miss Rettore. Che poi rilancia: «Siccome sono una bisbetica indomabile, ed essendo pure veneta, quando ho visto alcune loro fotografie con la Berté che li baciava in bocca… Ho mandato a quei tre diversi messaggi con faccette rosse arrabbiate. “Mi avete tradito... questo è alto tradimento”».

Theø, Plant e Fiks ci hanno detto che lei è loro regina: «Loredana Berté più una mamma».
La Berté mamma? Io la regina? Verranno redarguiti anche per questo: la mamma conta più della regina. La Sad se ne renda conto: loro hanno me e basta!

Vi conoscevate già mesi prima di questo Festival, giusto?
Sì, ci conoscevamo già. C’era l’idea di un featuring per il mio album che doveva uscire due anni fa, ma poi in Warner è cambiato lo staff dirigenziale e sono cambiati i tempi di tanti, ci siamo ritrovati a slittare io, Ligabue, la Pausini… Chi non fa la voce grossa insomma. Ora sono in attesa assieme ai miei fan. Che sollecitano. Mi auguro che esca in primavera questo mio nuovo disco, è già bell’e pronto.

È vero che La Rappresentante di Lista aveva scritto «Ciao ciao» per lei?
Sì. Era perfetta! Ma io stavo andando a Sanremo con Ditonellapiaga e «Chimica», che era ancora più immediata. Dario e Veronica sono bravissimi, degli autori, vivono di teatro, scrivono libri, intellettualmente sono formidabili e l’hanno fatta meglio di come l’avrei fatta io, credo. Comunque potevano essere il lato A e il lato B di un bel singolone.

I pezzi storici firmati con Claudio Rego come «Kobra» e «Splendido splendente» vanno ancora per la maggiore. La sua immagine dei ’70 risulta contemporanea oggi. Come se lo spiega?
Per me sta tutto nel ’77.

L’anno del punk. Aveva le antenne dritte?
Sì, infatti gli stranieri mi hanno capito prima. Facevo cose con Elton John, Kiki Dee, gli Abba, Rod Stewart… Una volta ho fatto Music on Top ad Amburgo nel 1978, eravamo in due a rappresentare l’Italia: io e Lucio Battisti.

Lei era sua fan?
Certo. Avevo tutti i suoi dischi. Ero una ragazza timida, insicura, anche se ero in giro da un bel po’. A un certo punto Lucio viene da me e mi fa «Io ti leggo su Billboard, ma tu chi sei?». «Signor Battisti, io non sono nessuno. Sono una che compra i suoi dischi. Mi fa un autografo?» e gli porgo una copia di «Una donna per amico». Ma quella che aveva successo con i tedeschi ero più io.

«Vado a vivere con Mick Jagger»: lasciò un biglietto e scappò di casa.
Patetica! Infatti mi hanno sbattuto subito in collegio. «Mick Jagger! Ma è più vecio de tì!», mi disse mia madre. Per lei i Rolling Stones erano come dei diavoli. Pressappoco come le signore vedono La Sad adesso. La cosa più difficile è stata essere figlia unica in un modo molto particolare: prima che nascessi io mia madre aveva avuto 3 figli, due maschi e una femmina, ma erano morti tutti per il cordone ombelicale. A 39 anni pensava di essere entrata in menopausa, quando sono arrivata io.

Che ha venduto più 45 giri di tutti fra le donne in Italia, Mina a parte.
Vero. Ma non è stata una passeggiata eh. Fare l’artista è complicato, di sicuro lo è in questo Paese.

Sangiovanni si è fermato, La Sad e Ghemon in maniere diverse hanno espresso il loro disagio: oggi i ragazzi affrontano anche pubblicamente le loro fragilità.
Ma meno male! I ragazzi ne devono parlare.

Ron, ex ragazzo prodigio, ha detto “Finalmente”.
Ha ragione. Rosalino è una persona stupenda, meravigliosa, di una dolcezza esagerata. E poi è un cantautore spettacolare. È stato aiutatissimo dal cuore più grande d’Italia che era Lucio Dalla: lo prese sotto l’ala come fosse suo figlio, mi diceva “Son preoccupato, ‘sto ragazzo…” “Ma questo ragazzo scrive canzoni meravigliose, non ti preoccupare – gli dicevo -: vedrai che volerà. Fidati che sono una maga!”.

Maga e istruttrice? Ha il tesserino come educatrice cinofila.
So come portare il cane al guinzaglio, come farlo socializzare, come farlo stare nel branco senza che azzanni o si faccia azzannare.

Agility Dog?
Come agilista sono una schiappista! Ma adoro i cani e tutti gli animali: se potessi adottare un coccodrillo, lo farei. Sono arrivati sulla terra prima loro, siamo noi gli intrusi. Il mio cane che si chiama Lupo in onore di tutti i lupi: il loro codice d’onore è pazzesco. Impone rispetto. Prendiamo esempio.

Se dovesse definirsi?
Ero, sono e sempre sarò una simpatica, indomabile rompiscatole. [

Il disco che porterebbe sull’isola deserta?
«Jump» dei Van Halen, così ci divertiamo. «Young Turks» di Rod Stewart, anche. «The power of love», pure. Rock intelligente.

Quanto è stata corteggiata?
Tanto, da tutti: uomini, donne, gay. Un ammiratore misterioso mi mandò vagonate di rose a casa: era Franco Califano. Non ci provò mai: solo galanteria. Un fuoriclasse.

Se non avesse fatto la cantante?
Sarei stata interprete parlamentare. Mi sono diplomata nei ‘70, ho avuto anche una laurea ad honorem l’anno scorso: «Management delle risorse artistiche e culturali» dall’Università del Mare.

La sua canzone che le assomiglia di più?
Quasi tutte: c’è sempre una buona dose di autoironia, nella consapevolezza della fine: carpe diem, domani potremmo non esserci più. Dobbiamo lottare perché finiscano la guerre. Dobbiamo fare ciò in cui crediamo oggi, non domani.

Gian Paolo Laffranchi

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