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Su Netflix

Williams dopo Beckham: come cambiano le docuserie

Più degli alti e bassi del campionissimo spiazza il cantante mettendosi a nudo: nei suoi occhi una disarmante resa dei conti con il passato
Piattaforma & verità Robbie Williams svela il lato oscuro della fama su Netflix
Piattaforma & verità Robbie Williams svela il lato oscuro della fama su Netflix
Piattaforma & verità Robbie Williams svela il lato oscuro della fama su Netflix
Piattaforma & verità Robbie Williams svela il lato oscuro della fama su Netflix

«Tutti a dirmi che la serie su Beckham è bellissima. Speriamo che la mia sia alla sua altezza, altrimenti tutti diranno che fa schifo». Così un mese fa, in collegamento con «Stasera c’è Cattelan», Robert Peter Williams.

L’importanza di chiamarsi Robbie: fra ambizione cocente, consapevolezza inevitabile e autostima scarsa, si sforza di restare in equilibrio da una vita. Lo fa anche raccontandosi su Netflix e la sua serie non è la più bella, no; ma la più dolorosa e sorprendente, questo sì. Così diversi e così uguali, Beckham e Williams. Il calciatore e il cantante. Ragazzi prodigio destinati al successo, belli e famosi da subito, altrettanto invidiati e spropositamente criticati.

La madre patria inglese ora idolatra ora massacra con la mutevolezza d’umore del suo clima e nei loro casi lo dimostra più che mai. Nessuno dei due ha una personalità debordante da Michael Jordan o Arnold Schwarzenegger, per restare in ambito sportivo e spettacolare; siamo lontani dall’epica di «Last dance», anche perché i protagonisti non giocano a incensarsi. Ma c’è un abisso, di sentimenti e suggestioni, fra David e Robbie. Visto su Netflix, Beckham è come te lo aspetti.

La regìa di Fisher Stevens rende omaggio al wonder boy che ha fatto sognare generazioni non solo british con la sua classe in campo e l’eleganza nei comportamenti, al netto di qualche caduta (soprattutto in campo amoroso) perdonata dall’inseparabile Victoria, l’ex Spice Girl vera protagonista della serie per intensità di sguardi e di opinioni. David è un uomo risolto e di successo, con piccole paranoie (l’ordine maniacale) e una linearità di argomenti e comportamenti che lo rende meno interessante degli stessi compagni di viaggio della sua carriera da campione (dall’amico Neville al Fenomeno Ronaldo, passando per Roberto Carlos e Fabio Capello).

Senza nascondersi

Williams, invece, sorprende. Si mette a nudo rivelando in prima persona, come mai era stato fatto prima, il lato oscuro di una fama mondiale precoce. Le insicurezze e le gelosie dell’adolescenza da Take That, il rifugio nella droga, l’incapacità di stabilire un vero legame fino all’incontro salvifico, fra un rehab e l’altro, con la donna della sua vita Ayda Field. L’unica capace di curarne le ferite, mostrate senza concedersi sconti attraverso l’innovativa scelta registica di Joe Pearlman: seduto sul letto, in canotta e boxer neri, Robbie guarda quelle che diventeranno le immagini del film che racconta la sua vita.

Anni di girato che non aveva mai rivisto, nei suoi occhi lo shock che gli comporta rivedere certi down (il baratro della dipendenza, l’insospettabile depressione, l’attacco di panico durante il concerto di Leeds) a dispetto di up che non hanno mai convinto certa stampa inglese, portata ad infierire a costo di esagerare un poco (come definire il pur discutibile esperimento simil-hip-hop di «Rudebox» «la peggior canzone di sempre», o scrivere che «la musica di Robbie Williams è per chi non prova nulla»).

Chi si aspetterebbe di ritrovare il mattatore Williams - uno che si mangiava il palco perfino nei video-tormentoni della Mtv che fu - nei panni scomodi del cantante che azzecca la nota più alta di «Angels» e si fa il segno della croce sospirando di sollievo, perché temeva di non farcela? Williams autentico nelle sue fragilità, una punta amara di autoironia sempre nel taschino: «Vorrei scrivere Karma Police ma sto scrivendo Karma Khameleon».

Niente male, come dimostrazione di umiltà, da parte di chi ha venduto più di 90 milioni di dischi e vinto più Brit Awards di tutti. Ma non puoi invidiarlo, ripercorrendone i drammatici saliscendi nel tempo. E non puoi non capire la scelta - professionalmente controproducente - di riunirsi ai Take That fuori tempo massimo: «Volevo altre quattro persone intorno a me con cui condividere il peso di tutti quegli occhi puntati addosso». Sure, so sure.

Gian Paolo Laffranchi

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