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La recensione

Le «Cento domeniche» di Antonio Albanese

Il regista Antonio Albanese
Il regista Antonio Albanese
Il regista Antonio Albanese
Il regista Antonio Albanese

Gli alieni del cinema italiano sono tra di noi: due fratelli di un altro pianeta, il pianeta felice del cinema fatto della nostra umana materia più intima, le nostre vite, i nostri sogni, i nostri affetti, le nostre passioni. È arrivato Antonio Albanese a tenere bordone e compagnia a Paola Cortellesi, anche se i loro film sono radicalmente diversi: Cortellesi mette in scena la speranza, Albanese la disperazione. «Cento domeniche» non è come il film di Bernardo Bertolucci, interpretato da Ugo Tognazzi, «La tragedia di un uomo ridicolo»; e Antonio Albanese regista non è un Ken Loach all’italiana. Albanese nei panni di Antonio Riva non è ridicolo, è soltanto umano e ingenuo come le persone che credono nel prossimo al quale accordano la loro incondizionata fiducia; l’Albanese regista non orchestra dialettiche messe in scena come Loach, ma fa uscire il suo film da dentro, dalla sua enorme sensibilità. Antonio Riva appartiene all’aristocrazia degli operai, gli specializzati che sono stati il nerbo di piccole fabbriche e hanno fatto le fabbriche grandi e i loro proprietari ricchi. Ora sono pre-pensionati e tornano in fabbrica a insegnare il mestiere ai nuovi assunti, ricevendo come compenso nulla o il classico piatto di lenticchie. Antonio è separato dalla moglie; frequenta una donna sposata e vagamente assatanata; provvede al mantenimento e alle necessità della madre che vive con lui; ha una figlia grande e il suo sogno segreto è vederla sposata. Ed è proprio nell’imminenza del gran giorno che Antonio va a trovare il direttore della banca dove ha tutti i suoi risparmi. Costui non gli risparmia i suoi interessati consigli: lo sciagurato ascolta. È l’inizio della virata verso il nero. 

Fausto Bona

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