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La recensione

«Foglie al vento», il ritorno di Kaurismäki

Ma come si fa a non perderci l’anima dentro le stralunate fissità del cinema di Kaurismäki e dei suoi surreali personaggi, fatti della materia di cui sono fatti i sogni, impastata di fatica, sudore e male di vivere? Come si fa a resistere alla malìa di ogni singola inquadratura che avvolge i protagonisti, a ogni colore, a ogni contrasto della fotografia che li accarezza e li esalata, in combutta con i dialoghi dalla cui essenzialità scaturisce non di rado uno humor tra il nero e il grigio, unico nel suo genere? Come si fa a non amare alla follia l’arte di Kaurismäki, specchio magico che ci restituisce, pervaso di surreale ironia, oltre al senso e al colore dello spleen nordico, le malinconiche sfasature di tragicomici eroi che sembrano andati a scuola da Buster Keaton? Come si fa, dico io, a non correre a vedere «Foglie al vento», l’ultimo film del regista finlandese, premiato a Cannes per la migliore regia? Impossibile per un animo cinefilo resistere alla tentazione di partire da «Foglie al vento» per andare à rebours fino ai cowboys di Leningrado, al loro viaggio in America e a tutto il resto della compagnia. Prima di incontrare sullo schermo la vita agra, massacrata dalla disumana legge del profitto come in un film di Ken Loach, dell’operaio che salda, pulisce, beve troppo, si ubriaca e per questo viene licenziato; della cassiera che perde il posto di lavoro per essersi tenuta una porzione di cibo scaduto destinata al macero. Poi al karaoke la possibilità dell’amore tra i due; il Destino con un colpo di vento, sull’onda di colpi di rock, di incredibili canzoni esistenzialiste francesi e della imperitura musica delle «Feuilles mortes», spariglia le carte prima di evocare lo spirito eterno dell’eterno Charlie Chaplin.

Fausto Bona

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