<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">
L'intervista

Mincato: «Non si va avanti senza petrolio e gas»

Tanti, troppi anni fa, durante un inizio di dicembre particolarmente mite, Vittorio Mincato non nascose la sua preoccupazione. «Avanti di questo passo - disse sfidando i raggi del sole - venderemo poco gas e il nostro bilancio ne risentirà». All’epoca era amministratore delegato di Eni, il gruppo a cui ha dedicato quasi 50 anni di vita professionale, prima di diventare, nel 2005, presidente di Poste Italiane. Ma il suo dna coincide con quello del cane a sei zampe. E in questo momento di profonda incertezza energetica la sua preoccupazione è opposta a quella di tanti anni fa e coincide con quella di famiglie e imprese alle prese con bollette energetiche tremendamente pesanti.

Presidente Mincato, stanno arrivando nelle case e nelle imprese vicentine delle bollette energetiche che rischiano di mettere in ginocchio bilanci grandi e piccoli. Da manager che ha passato una vita all’interno del gruppo Eni comincerei col chiederle se sono percorribili le richieste di Mario Draghi alle aziende del settore di, come dire, ricalcolare gli utili di competenza alleggerendo le bollette che stanno per partire.
Un tema che è stato sempre caro alla politica è quello di indurre le imprese che operano nel campo dell’energia a moderare la traslazione sul consumatore degli aumenti di prezzo delle materie prime che si verificano sul mercato per i più svariati motivi. Un anno fa un barile di petrolio quotava 55 dollari, oggi ne quota 80, con un aumento perciò del 45% e il prezzo del gas ne segue l’andamento. Che anche questo Governo faccia pressione sulle aziende perché non eccedano negli aumenti del prezzo al consumatore (non solo di gas e di energia, ma anche dei carburanti per autotrazione) mi sembra naturale. 

Ma quante possibilità ha di essere recepito dalle aziende destinatarie della raccomandazione?                                            In un’economia di mercato com’è la nostra sta alle aziende valutare se accogliere o non accogliere la raccomandazione. Altro discorso meriterebbe l’ipotesi, che pure è stata fatta, che il Governo reiterasse l’obbrobrio di una legge del 2008, chiamata Robin Hood tax, e decidesse di tassare i profitti delle aziende energetiche per procurarsi le risorse da impiegare nella riduzione delle bollette dei consumatori, provvedimento che già la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale. 

Par di capire che ci siano poche possibilità...
Si tenga conto che con il barile a 55 dollari, le imprese non fanno profitti, spesso perdono soldi e a nessuno viene ovviamente in mente di dare loro un aiuto: quelle perdite si compensano con i profitti di quando il barile va a 80 dollari. Con i prezzi depressi del petrolio, nel 2020 l’azienda petrolifera di casa nostra, l’Eni, ha perduto 8,6 miliardi di euro e ha ugualmente remunerato gli azionisti, Stato compreso, attingendo alle riserve. Ecco, se proprio si vuole ridurre le bollette, possono essere una buona fonte di finanziamento i dividendi (e le tasse) che lo Stato riscuote dalle imprese petrolifere.

Il governatore Luca Zaia propone di intervenire sulle multiutilities venete, a partecipazione pubblica, per calmierare i prezzi di gas ed energia. È un’ipotesi praticabile, secondo lei?
L’ipotesi del presidente Zaia di intervenire sulle multiutilities venete a partecipazione pubblica, per calmierare i prezzi di gas ed energia, è ben più logica di quelle che si sono fatte a Roma, perché limita l’intervento sulle aziende pubbliche di proprietà della Regione o dei Comuni del Veneto: la Regione e i Comuni, cioè, vengono incontro ai consumatori sacrificando una parte dei profitti delle aziende partecipate. Ben inteso che si deve trattare di partecipazione regionale o comunale totalitaria, per non ledere i diritti degli altri azionisti.

Un tema molto dibattuto, con riferimento alla sostenibilità ambientale, è quello della transizione energetica. Quanto sono raggiungibili, dal punto di vista temporale e sostanziale, gli obiettivi di indipendenza dai combustibili fossili che si sono date le istituzioni sovranazionali, Unione europea in testa? E quanto questi programmi incidono sulla dinamica dei prezzi?
La mia risposta sta nei numeri: attualmente il mondo si alimenta per l’85% dei suoi fabbisogni con fonti fossili di energia, vale a dire carbone, petrolio, gas. Soltanto l’altro 15% è fornito da altre fonti e, in particolare, l’eolico e il solare contribuiscono con il 5%. Tenuto conto della generale ostilità alla installazione di impianti che generano energia di questo tipo, vuoi per il deturpamento paesaggistico che ne deriva, vuoi per l’occupazione delle estese superfici che essi richiedono, vuoi per il fenomeno Nimby (nessuno vuole nulla nei pressi della sua casa), mi sembra improbabile che, nei termini relativamente brevi che ci siamo dati, queste fonti alternative di energia possano davvero modificare sostanzialmente il mix delle fonti energetiche. 

Ma allora gli sforzi che, a tutti i livelli istituzionali, si stanno facendo sono inutili? 
No, non significa che non ci si debba provare, purché si tenga conto che sempre del petrolio e del gas avremo bisogno per soddisfare i nostri bisogni energetici. Ma questa mia opinione non può essere sorretta dai numeri: è una sensazione che mi deriva dalla tradizionale lentezza di trasformazione dei cicli produttivi, specialmente quando sono imposti dall’alto e non dal mercato.

Petrolio e gas, come lei ha avuto modo di sperimentare durante la sua vita professionale in Eni, si estraggono dopo aver fatto enormi investimenti e in Paesi non sempre “facili” da gestire, penso alla Russia e al Medio Oriente per cominciare. Quanto contano le dinamiche geopolitiche in questo mercato e come si potrebbe intervenire per neutralizzarne o diminuirne gli effetti?
Le dinamiche geopolitiche contano moltissimo nel business dell’esplorazione e produzione di idrocarburi e ogni volta che un’impresa decide un investimento ne tiene conto. Ma, come dicevo sempre agli investitori preoccupati della pericolosità politica di taluni paesi in cui l’azienda che guidavo investiva, il petrolio e il gas non si trovano in Svizzera. Perciò ogni investimento comporta un rischio che può anche essere rilevante ed è anche per questo che i ritorni economici degli investimenti petroliferi devono essere elevati, per compensare i rischi non soltanto dei costi sostenuti in esplorazioni senza successo, ma anche dell’instabilità politica del paese dove si investe. 

Ci sono due Paesi che, per diversi motivi, sono sempre al centro delle preoccupazioni quando si parla di forniture di gas e petrolio, l’Iran e la Russia. Come la vede?
Ai tempi della rivoluzione khomeinista in Iran, nel 1979, quando fu cacciato lo scià, l’Eni fu espropriata, e risarcita, degli investimenti fatti da Enrico Mattei: ciò non le impedì, poco più di vent’anni dopo, quando la guidavo io, di ritornare in Iran con grandi progetti di investimento. È buona norma dell’impresa petrolifera diversificare geograficamente le sue attività esplorative, proprio per attenuare i rischi. 

E la Russia di Putin? Come deve rapportarsi l’Europa di fronte alla minaccia di Mosca all’Ucraina?
È da quando, più di mezzo secolo fa, l’Eni stipulò i primi contratti di importazione del gas siberiano e costruì i metanodotti per portarlo in Italia, che da più parti vi sono manifestazioni di allarme sul rischio, chiassosissime ai tempi dell’Unione Sovietica, più moderate dopo. Ora vi sono tensioni politiche gravi e i rischi sono più elevati, ma la Russia ha sempre rispettato i contratti e non ha alcuna ragione per non rispettarli, nel suo stesso interesse. Come dicevo agli investitori quando guidavo l’Eni: la Russia non ha mai mancato di consegnare un metro cubo di gas e noi non abbiamo mai mancato di pagare un dollaro. E poi, forse che Algeria e Libia, paesi dai quali giungono all’Italia flussi corposi di gas attraverso metanodotti sottomarini, sono fonti più sicure della Russia? Lo stesso Egitto, dove l’Eni ha una grossa interessenza insieme agli spagnoli in un impianto di liquefazione del gas, presenta rischi geopolitici. Non è certo con i piccoli giacimenti dei nostri mari che riusciremmo a soddisfare i consumi fortunatamente crescenti italiani.

In questi ultimi due anni la pandemia sta giocando un ruolo decisivo prima nel rallentamento dell’economia globale e poi nella ri-accelerazione che ha finito col rendere difficile il reperimento di particolari materie prime e col rallentare il commercio internazionale. Quanto conta la Cina in questa partita che impatta concretamente sui portafogli di tutti noi?
Il discorso sulla Cina non è semplice. Tutto origina dall’ammissione della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) avvenuta vent’anni fa, per effetto della quale le si sono aperti i mercati occidentali che le hanno consentito di aumentare enormemente le sue esportazioni verso gli Stati Uniti e verso l’Europa: gliene è derivato un aumento di 11 volte del suo prodotto interno lordo, cannibalizzando però nell’Occidente milioni di posti di lavoro, soprattutto nel manifatturiero, dove l’Italia era ed è particolarmente impegnata. Ma è vero anche che è grazie a quella ammissione se i consumatori occidentali hanno potuto beneficiare di molti prodotti cinesi a basso prezzo e che molte imprese occidentali sono entrate nel mercato cinese con prodotti di alta gamma, con conseguente creazione di nuovi posti di lavoro. 

Ma l’Italia ha avuto più benefici o svantaggi dall’ingresso della Cina nel Wto?
Un caso che amo sempre ricordare è quello della Savio di Pordenone, che guidai ormai trent’anni fa ed era in profonda crisi: grazie al mercato cinese essa è diventata un caso di successo tecnologico e produttivo italiani. Il problema è che la Cina non ha rispettato e non sta rispettando le regole che si era impegnata a rispettare ed è compito nostro, dell’Occidente, di adottare quelle misure che la obblighino a rispettarle, traendone le conseguenze nel caso, probabile, che essa non si adegui in tempi ristretti. Ma siamo sicuri che, poi, staremo meglio?
Nell’ottica della transizione energetica pensa che si debba riconsiderare la posizione di chiusura nei confronti del nucleare? Sono più i rischi o più i vantaggi nel costruire nuove centrali di questo tipo?
Non si può dare una risposta attendibile. L’energia nucleare l’abbiamo cacciata dal nostro territorio più di trent’anni fa a furor di popolo con il referendum indetto sotto l’effetto del disastro di Chernobyl dell’anno prima e abbiamo confermato la cacciata dieci anni fa, ancora con un referendum. La mia opinione è che prima o poi dovremo ritornare a ragionarci sopra. A meno che nei prossimi, diciamo, venti-trent’anni la scienza non sia capace di offrirci una evoluzione delle attuali tecnologie, atta a produrre, in modo meno invasivo e in quantità ben più elevate, energie rinnovabili adeguate ai nostri bisogni. Del resto, chi avrebbe immaginato, trent’anni fa, che la tecnologia informatica e delle telecomunicazioni avrebbe raggiunto lo sviluppo che vediamo e sperimentiamo oggi, rivoluzionando il nostro modus vivendi?

Chiudiamo con una previsione sull’inflazione: quella che stiamo vivendo per lei è una fase transitoria o è destinate a durare? E il livello dei prezzi di petrolio e gas dove pensa sarà tra, diciamo, un anno?
Sull’inflazione la mia opinione è che stiamo superando il ciclo dei tassi negativi e abbondanza di moneta in circolazione. Ne consegue che l’andamento dei prezzi si sta normalizzando con lo stabilizzarsi di un’inflazione prossima all’obbiettivo della Bce, che è del 2%. Ci potranno essere brevi fiammate in su e in giù, ma l’azione della Bce sui mercati sarà capace, io penso, di raggiungere l’obiettivo che si è prefissata. Quanto al prezzo del petrolio, formulare una previsione è la cosa più sicura da fare per sbagliare. Sono troppe le variabili che lo determinano, compresa quella speculativa che spesso è determinante. 

 

Marino Smiderle

Suggerimenti