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TERRA RISORSA DA RISPETTARE

Vandana Shiva, indiana, crede in  un’economia più equa. FOTO CECCON
Vandana Shiva, indiana, crede in un’economia più equa. FOTO CECCON
Vandana Shiva, indiana, crede in  un’economia più equa. FOTO CECCON
Vandana Shiva, indiana, crede in un’economia più equa. FOTO CECCON

«Non è solo una questione di rispetto della natura: con la biodiversità si possono creare benessere e ricchezza. Ma il modello di sviluppo nel quale siamo immersi da due secoli vede la Terra solo come una risorsa da sfruttare fino a stremarla». È il credo di Vandana Shiva, 66enne studiosa e attivista indiana, vincitrice nel 1993 del “Right Livelihood Award”, una sorta di Nobel alternativo che dal 1980 premia soggetti attivi per un’economia più equa. E della riduzione delle disuguaglianze tra nord e sud del mondo, l'attivista indiana ha fatto la propria bandiera: specializzata in filosofia della scienza, dalla fine degli anni Settanta si batte per un ritorno all’agricoltura tradizionale, occupandosi anche di diritti e bioetica. Considerata un’icona dell’ambientalismo, attorno alle sue tesi il dibattito resta acceso, in particolare da parte degli studiosi che considerano un’utopia sfamare i Paesi in via di sviluppo affidandosi a tecniche agricole dei secoli scorsi. Impegnata in queste settimane in Italia, Vandana Shiva era nei giorni scorsi a Bassano a villa Angaran San Giuseppe, poi al palasport insieme alla studioso di genetica agraria, Salvatore Ceccarelli, ad altri esponenti del mondo sociale e del volontariato. Si occupa spesso del legame tra finanza e sfruttamento delle risorse, considerando il binomio quasi inscindibile. È possibile una “finanza sostenibile”? Lo è, purché cambiamo radicalmente modello. Da due secoli, dopo la prima rivoluzione industriale, trattiamo la Terra come una risorsa da sfruttare senza limiti, e negli ultimi 70 anni questo approccio è divenuto dominante quasi in maniera assoluta. Dobbiamo introdurre nel nostro concetto di benessere l’idea che gli esseri umani siano parte di una rete più ampia, che comprende anche le altre specie. In sostanza, dobbiamo renderci conto che la crescita non può essere infinita: solo su queste basi potremo dare vita a una finanza etica. Altrimenti, quali potrebbero essere le conseguenze? Sul lungo periodo ,ma neppure poi tanto, la devastazione del pianeta, sul breve termine ciò che già i media riportano: carestie, crisi ed enormi, e drammatici, movimenti migratori. E il modello che lei propone da decenni, con il ritorno a forme di produzione tradizionali, funzionerebbe? Ritornare a modelli antichi di produzione agricola significa rispettare la biodiversità, e la biodiversità è una forma di adattamento anche alle crisi ambientali. Il problema è che i messaggi veicolati dalle multinazionali vanno in senso opposto, dicendo, ad esempio, che l’agricoltura tradizionale o il biologico non convengono. Quindi, che cosa bisogna fare? Informarsi, innanzitutto. Documentarsi e smontare le diverse “fake news” che circolano nel settore. Poi compiere una serie di gesti, piccoli ma importanti, come privilegiare le produzioni locali, la filiera corta, la stagionalità. Infine costruire una rete che parta dal basso: dobbiamo passare da un'economia lineare a circolare. È convinta che in questo modo si potrebbe generare ricchezza? Certo, ripartire dall’economia reale è il modo migliore per distribuire ricchezza e per resistere alle crisi delle quali periodicamente la finanza finisce preda. In più c’è tutto il ventaglio di valori sociali e culturali che un lavoro dal basso genererebbe: anche questi, soprattutto questi, sono ricchezza. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

Lorenzo Parolin

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