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Lo scrittore vicentino

Esce un inedito di Vitaliano Trevisan

Vitaliano Trevisan (1960-2022) scrittore, attore e drammaturgo vicentino
Vitaliano Trevisan (1960-2022) scrittore, attore e drammaturgo vicentino
Vitaliano Trevisan (1960-2022) scrittore, attore e drammaturgo vicentino
Vitaliano Trevisan (1960-2022) scrittore, attore e drammaturgo vicentino

A un mese dalla morte di Vitaliano Trevisan, torna nelle librerie “Works”, capolavoro dello scrittore vicentino. Questa nuova edizione, pubblicata sempre da Einaudi, è impreziosita da un capitolo inedito, intitolato “Dove tutto ebbe inizio”, che non venne inserito quando il libro uscì, nel 2016. Trevisan però amava molto questo testo, tanto che aveva in mente di pubblicarlo separatamente con un’altra casa editrice.
Dopo averlo letto, ci sarà senz’altro chi dirà che si tratta di un testamento letterario, anche perché Trevisan fa qui una sorta di bilancio esistenziale, riflettendo ad esempio sul fatto di aver raggiunto, come artista, la notorietà ma non il successo, con tutta la precarietà che questo comporta. Più che questo singolo capitolo, però, è “Works” nella sua interezza ad essere un testamento letterario, in quanto centro pulsante attorno a cui gravita tutta l’opera dello scrittore e nello stesso tempo, come scrive Andrea Cortellessa, smisurato autocommento ad essa.

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Un memoir sul lavoro In questo corposo memoir di quasi 700 pagine, composto tra il 2010 e il 2015, Trevisan racconta la sua movimentata vita lavorativa, dai primi lavori estivi mentre frequentava l’istituto tecnico per geometri, fino al 2002, quando decide di interrompere questa lunga serie di false partenze per dedicarsi totalmente alla scrittura. L’unica bussola che lo guida è il proposito di tenersi in equilibrio su un filo, preoccupandosi di non cadere mai in qualcosa che abbia un’apparenza di definitivo.

La periferia diffusa Le pagine inedite, ennesima, straordinaria variazione intorno a temi, luoghi, situazioni, che ritornano in tutti i suoi libri e che l’autore ha indagato in modo ossessivo, ci permettono di mettere in luce diversi aspetti salienti di “Works”. Innanzitutto viene registrato, con impietosa lucidità, lo sconvolgimento intervenuto dagli anni Settanta fino ad oggi al Nordest che Trevisan definisce “periferia diffusa”, ovvero una periferia policentrica in cui domina una logica irrazionale secondo la quale il territorio viene frazionato e divorato da mandibole che lo masticano e rimasticano senza fermarsi mai. Tutto ciò rende quest’area sempre più densa, scoordinata e frammentata. Tuttavia non c’è nessuna nostalgia per il passato come testimonia questo passo: “Non posso però dire di essere spaesato; al contrario: è una trasformazione che ho vissuto, a cui, vivendo e lavorando qui, ho fattivamente contribuito, cosa del resto inevitabile”.

La madre In queste pagine inedite, il fulcro dell’indagine dello scrittore è Cavazzale, definito “un immenso canile lasciato a sé stesso”, un paese labirintico, finto, privo di identità, e dove tutto ha avuto inizio. Qui infatti Trevisan è cresciuto ed è poi tornato a viverci per un periodo, dopo la morte della madre, una donna posseduta da una rabbiosa frustrazione per aver dovuto rinunciare al lavoro a causa dei figli e che ha condizionato pesantemente la vita dello scrittore. Non c’è dubbio che la sua visione feroce della famiglia, vista come un male incurabile che determina la nostra esistenza, abbia una forte matrice autobiografica. 

Cavazzale industriale Nel corso di una camminata notturna, lo scrittore attraversa questi luoghi, inseguito dai suoi demoni, affrontando anche il grande tema del libro, quello del lavoro, a partire dalle due grandi realtà industriali che hanno rappresentato l’epicentro di quest’area: prima il Canapificio Roi, attorno a cui Cavazzale si è sviluppata, e poi, nello stesso edificio, la Sivi illuminazione (acquisita in seguito dalla General Electric), la cui chiusura ha traumatizzato e svuotato di senso il paese. Analizzando la storia delle due industrie e il modo in cui hanno dominato la zona, Trevisan demistifica qualsiasi visione idealistica del lavoro, ne denuncia l’illegalità diffusa, il mito della produttività a scapito della sicurezza e gli assurdi meccanismi che lo regolano (in questo nuovo capitolo se la prende con il cancro della raccomandazione). Alla fine il lavoro appare non tanto come una forma di realizzazione personale o di nobilitazione, ma come una semplice necessità, “come un’invenzione dell’uomo per contrastare l’insensatezza dell’esistenza, per rendere più leggero il peso di questa insensatezza”. 

Il suicidio Chi leggerà il nuovo capitolo senza conoscere altri libri di Trevisan potrebbe commettere l’errore di ritenerlo profetico, in quanto si parla, in modo molto diretto, di suicidio. Tuttavia non si tratta certo di una novità, visto che questo tema, così come quello della morte, attraversa tutte le sue opere. In queste pagine inedite, Trevisan si stupisce di essere arrivato ai cinquant’anni, dichiara di essere sempre stato impreparato alla vita e definisce la condizione umana qualcosa di orribile, senza via d’uscita. Ciò che gli rende l’esistenza più tollerabile, scrive, è “l’idea che in ogni momento avrei potuto prendere l’iniziativa e farla finita. In fondo, il bene più prezioso su cui l’essere umano può contare, ciò che davvero lo distingue dall’animale, è la possibilità di sottrarsi al mondo in ogni momento attraverso il suicidio”. Poco più avanti aggiunge però che oramai è troppo tardi, avrebbe dovuto farlo quand’era giovane, perché la modalità deve essere il più possibile estetica e suicidarsi a cinquant’anni ha un che di ridicolo: “Dovrò rassegnarmi - conclude - a portare in giro la carcassa difettata per il tempo che sarà”.

La distanza tra vita e letteratura Come purtroppo sappiamo non è andata così e questo ci permette due considerazioni. La prima: per quanto Trevisan sia uno scrittore fortemente autobiografico, non dobbiamo cadere nell’errore di sovrapporre totalmente l’autore e l’io narrante, considerando inesistente la distanza tra vita e letteratura. Aspetto che tra l’altro viene ribadito nel capitolo inedito: “L’atteggiamento più normale, e il più stupido, è di attribuire allo scrittore la stessa visione del mondo dei suoi personaggi”. C’è poi un secondo elemento che merita di essere chiarito, tanto più in queste settimane in cui molti lo hanno ridotto a una sorta di principe delle tenebre ingoiato dall’oscurità, dimenticando le tante sfaccettature della sua personalità: “Works” non è un libro cupo e monotonale, nonostante i temi affrontati siano spesso crudi e scomodi e nonostante la visione del mondo resti senza speranza. È anzi un’opera che ricorda l’ariosa disperazione delle “Operette morali” di Leopardi, in cui il comico e il tragico sono magistralmente fusi insieme, grazie ad un’ampia pluralità di registri e all’uso di un’ironia corrosiva e perturbante, che spesso vira verso il grottesco, e che regala momenti davvero esilaranti. Memorabile in tal senso la galleria di figure che attraversano “Works” e di cui l’autore riesce a svelare l’essenza più profonda attraverso uno sguardo impassibile che mette in luce la piccineria degli esseri umani.

La scrittura Ma ciò che rende grande Trevisan, e il suo “Works” una pietra miliare della letteratura contemporanea, oltre a tutto quello che abbiamo detto fin qui, è la sua scrittura, che per lui era allo stesso tempo cura e malattia e che gli consentiva di guardare in faccia l’assurdità del mondo. Una scrittura caratterizzata da uno stile riconoscibilissimo, sinuoso, percussivo, implacabile, composto da periodi lunghi e vorticosi, che ha come numi tutelari Thomas Bernhard e Samuel Beckett, e che si innalza al di sopra dell’insipida medietà della lingua letteraria dominante. La sua lingua, netta e tagliente come un rasoio, che insegue costantemente la parola esatta e un’aderenza autentica alle cose, rappresenta un antidoto contro quest’epoca dominata da una comunicazione sempre più opaca e contraffatta.

Fabio Giaretta

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