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IL RACCONTO

Le 13 perle di Mario Vielmo: «Il nostro pianeta dev'essere rispettato»

di Sara Marangon
L'alpinista di ritorno dalla vetta del Nanga Parbat: «Ho percorso gli ultimi 500 metri a una media di 50 metri l'ora»
Mario Vielmo ha raggiunto la vetta del Nanga Parbat, conquistando così il suo tredicesimo ottomila
Mario Vielmo ha raggiunto la vetta del Nanga Parbat, conquistando così il suo tredicesimo ottomila
Mario Vielmo ha raggiunto la vetta del Nanga Parbat, conquistando così il suo tredicesimo ottomila
Mario Vielmo ha raggiunto la vetta del Nanga Parbat, conquistando così il suo tredicesimo ottomila

Dove i più mirano solamente all'impresa, ossia completare i "fantastici 14 Ottomila", alpinisti come Mario Vielmo e Tarcisio Bellò vedono ed elogiano il viaggio che porta l'uomo a confrontarsi con la montagna. Tutto senza uso di ossigeno supplementare, senza una costante e battente cassa di risonanza mediatica fatta di foto e bollettini sui social, senza sponsor internazionali a condire il tutto. Solo con l'umiltà e il rispetto dovuti al cospetto degli 8.126 metri di roccia e ghiaccio del Nanga Parbat.

Un viaggio quasi mistico

A metà tra la terra e il cielo, dove l'aria è rarefatta e dove sapersi fermare può salvare la vita. I due alpinisti vicentini, Vielmo e Bellò, sono dunque stati accolti dal sindaco di Vicenza Giacomo Possamai e dal presidente del Cai Vicenza Giovanni Vaccari al loro rientro dall'himalayano Nanga Parbat, la nona montagna più alta della Terra ed il secondo ottomila, dopo l'Annapurna, per indice di mortalità tanto da essere denominata "the killer mountain". Una montagna che ha dato solo un lascia passare, quello di Mario Vielmo. Tarcisio Bellò, infatti, ha dovuto abbandonare l'impresa rimanendo fermo al Campo 3 a causa della disidratazione e di un virus intestinale. Ora a Vielmo manca solo lo Shisa Pangma per centrare la serie dei 14: diventerebbe così l'ottavo italiano ad entrare nella storia.

La spedizione

Dopo due anni di tentativi, dunque, Mario Vielmo ha raggiunto la cima del Nanga Parbat alle 16.30 del 3 luglio scorso; con lui i compagni di salita Nicola Bonaiti, Valerio Annovazzi, l'argentino Juan Pablo Toro e l'alpinista pakistano Muhammad Hussein. E nemmeno a farlo apposta l'impresa è stata realizzata proprio nel giorno dell'anniversario della prima storica salita compiuta in solitaria dall'austriaco Hermann Buhl, il 3 luglio di 70 anni fa. Era invece il 1970 quando Reinhold e Günther Messner, all'epoca poco più che ventenni, salirono in vetta al Nanga Parbat dall'inviolata parete Rupal; purtroppo, però, nel corso della discesa lungo il versante Diamir, Günther restò indietro e scomparve.«Quando si arriva in vetta il rischio è quello di farsi sommergere dalle emozioni - racconta l'alpinista Mario Vielmo che, tra le altre, ha già conquistato Everest, K2, Makalu e Kanchenjunga - Ma la testa deve rimanere concentrata per la pericolosa discesa. Ad ogni modo il mio primo pensiero è sempre rivolto al nostro Pianeta e alle sofferenze che sta subendo; in un secondo momento, accerchiato da un silenzio avvolgente, mi faccio sopraffare da una bellissima sensazione di libertà. Siamo ospiti temporanei di queste altezze, l'area è rarefatta e in questa dead zone non c'è né tempo, né modo per rimanere a lungo. Sono tornato a Vicenza e sto pianificando l'ultimo ottomila che potrebbe essere affrontato già a settembre. Ma cerco sponsor e partner perché si parla di un'impresa da 25 mila euro».

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La prossima sfida

È lo Shisa Pangma, con i suoi 8.027 metri, il colosso mancante per arrivare a comporre il fatidico numero di 14 cime sopra gli ottomila e consentire al vicentino di finire nell'olimpo dei migliori alpinisti di sempre. «Lo scorso anno il clima sul Nanga Parbat non aveva assolutamente giocato dalla nostra - conclude Vielmo - Il problema è stato che nell'arco di qualche settimana siamo passati da tre metri di neve a una temperatura molto alta che non solo ha provocato valanghe di sassi, acqua e neve, ma che ha portato lo zero termico a 6500 metri. A quel punto la situazione era così pericolosa da farci decidere di rinunciare alla scalata. E se ci pensiamo è stato proprio il periodo in cui si è verificato il disastro della Marmolada dove sono venuti a mancare amici e colleghi. Ecco, a tal proposito voglio dire che saper fermarsi in montagna può salvare la vita. Quest'anno, invece, dopo una lunga notte passata a Campo 4, in cinque in una tenda da tre a causa del forte vento che ne aveva distrutta una, abbiamo aspettato che calassero le raffiche e siamo partiti all'alba pur senza riuscire a scaldare l'acqua e dunque a bere. Gli ultimi 500 metri che mi separavano dalla vetta li ho completati a una media di 50 metri l'ora faticando ad alzare le gambe. Ero disidratato, stanco e assonnato». E conclude: «Dedico questo successo a tutta la squadra, a Tarcisio e anche al polacco Pawel Kopec che purtroppo non ce l'ha fatta».

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