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La proposta

Campioni, sogni e glorie: Vicenza si meriterebbe il titolo "Città del Calcio"

Basterebbe dire che sull'erba dello stadio intitolato a un Caduto di Superga hanno affondato i tacchetti due giocatori Palloni d'Oro, due Azzurri d'Italia, uno dei quali successivamente campione del Mondo e l'altro vice. Sì, sarebbe sufficiente questo concentrato di storia orgogliosamente esclusiva per dire come e perché ci si trovi nel tempio laico dello sport più diffuso e praticato al mondo. Basterebbe ma possiamo andare oltre: aggiungendo che le corsie laterali sono state solcate da un fenomenale precursore del calcio moderno, un Facchetti prima... di Facchetti mentre le aree di rigore sono state a lungo pertinenza indiscussa di un brasiliano il cui nome di battaglia lo affianca(va) al re della savana. E ancora: in quello stesso giardino di sogni che rotolano festosi in armonia con il pallone, un gruppo di baldi ragazzotti di biancorosso vestiti ha alzato al cielo una coppa Italia a suo modo epocale: quella vinta dalla squadra della città più piccola dell'albo d'oro tricolore (eccezion fatta per Vado Ligure, 1924, prima edizione). Non solo: poco al di fuori di quel perimetro magico, al di là degli spalti dell'onusto catino, vi è la sede di un'associazione di respiro nazionale la cui missione, sin dagli albori (ed è passato più di mezzo secolo) fu dirompente e a suo modo rivoluzionaria: difendere e tutelare la categoria dei calciatori, lavoratori del mondo dello sport-intrattenimento non sempre privilegiati.

Signore e signori, benvenuti a Vicenza. Città del Palladio, due medaglie d'oro, patrimonio Unesco, certo: ma benvenuti anche in quella che è a pieno titolo una Città del Calcio, luogo fondamentale nella geografia non solo immaginaria del pallone. Benvenuti allora nella città di Romeo Menti, di Paolo Rossi e Roberto Baggio, di Giulio Savoini, di Luis O'Lione Vinicio, del VicenzadiGuidolin (tutta una parola) e dell'Associazione italiana calciatori fondata da Sergio Campana, altro monumento biancorosso. Pensateci, suona anche bene: Vicenza Città del Calcio; titolo immateriale, che potrebbe avere il sapore dell'effimero ma che in realtà ha radici profonde, incapaci di gelare anche negli inverni sportivamente più bui trascorsi ai piedi dei Berici. E che potrebbe concretizzarsi perlomeno con una targa, un cartellone d'ingresso alla città, una segnaletica ad hoc, un'incisione, un documento scritto: la certificazione nobile da offrire a chi c'è e lasciare a chi verrà. Questa modesta proposta rivolta a quanti reggono le sorti del governo cittadino e dello sport ha numerosi antefatti, impossibili da elencare qui: fanno corpo unico con il patrimonio di ricordi personali, memorie tramandate, racconti di papà, nonno, amici. Insomma, il dna di ciascuno di noi: la normalità di "tesori" eccezionali. Ma ve n'è uno, molto recente, che travalica la classifica dei sentimenti privati per confluire in qualche modo in quello collettivo. E risale alla giornata in cui allo stadio Romeo Menti fu allestita la camera ardente per Paolo Rossi, Rossi gol, amatissimo figlio adottato da Vicenza. Il giorno in cui, mentre il mondo piangeva la scomparsa dell'uomo prima ancora del campione, salimmo a monte Berico per un silenzioso saluto dall'alto, una laica preghiera cullata dal tepore del ricordo di giornate perfette trascorse in quello stesso stadio e delle ore che precedevano le partite. Dalla balconata di piazzale della Vittoria la visione della città avvolta nell'oscurità, addolorata, ancora incredula, e lo stadio illuminato a giorno fecero detonare memorie, aneddoti, pensieri e parole. Su tutte, quelle pronunciate da Renzo Ulivieri che riferendosi al periodo della sua prima esperienza sulla panchina biancorossa - anno di grazia 1979, gioco scintillante e un ritorno in serie A mancato d'un niente - un giorno raccontò di quanto lo colpì il modo di dire dei vicentini: "Domenica andiamo al calcio". "Al" calcio, già: come andare al cinema, andare a teatro, andare a una mostra. E a ri-pensarci bene, questa è l'architrave della cultura sportivo-calcistica radicata in questa città, la cultura di quello che è stato certamente, e probabilmente lo è ancora, un modo di interpretare e vivere il pallone e le passioni che rimbalzano con esso; quella di cui un giorno in treno si trovarono a parlare anche un maestro che ha fatto la storia di questo Giornale, Gianmauro Anni, e uno dei più celebri critici teatrali e scrittori del dopoguerra, Gian Antonio Cibotto.

Adesso che si parla anche di un museo da dedicare a Pablito, ragazzo come noi, Vicenza Città del Calcio potrebbe essere una definizione capace di andare al di là delle etichette, delle apparenze, che non avrebbe la pretesa di essere inserita nelle fascinose narrazioni di Federico Buffa a fianco dell'argentina Rosario, dell'inglese Sheffield e via raccontando: vive già di luce propria, quella che scaturisce dall'agenda del cuore.

È vero: ognuno ha tanta storia e "Vicenza Città del Calcio" ne ha da raccontare.

Stefano Girlanda

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