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L'inchiesta

L’ex direttore del GdV, Gervasutti: «Basito, ma lo Stato c’è»

di Matteo Bernardini
Le parole del giornalista dopo le rivelazioni arrivate dall’inchiesta della Dda: «Non potevo immaginare che dietro all’attentato mafioso che ha mi ha colpito potesse esserci una persona eletta due volte in Parlamento»
L'ex direttore del GdV, Ario Gervasutti e, a destra, la sua abitazione dopo l'attentato
L'ex direttore del GdV, Ario Gervasutti e, a destra, la sua abitazione dopo l'attentato
L'ex direttore del GdV, Ario Gervasutti e, a destra, la sua abitazione dopo l'attentato
L'ex direttore del GdV, Ario Gervasutti e, a destra, la sua abitazione dopo l'attentato

Il giorno dopo, assieme ai messaggi di solidarietà ricevuti, e al sollievo per avere finalmente dato un nome e un volto al mandante dell’attentato che il 16 luglio 2018 aveva colpito la sua abitazione, ad Ario Gervasutti, ex direttore del GdV e ora capo redattore al Gazzettino, resta l’incredulità legata al nome di chi avrebbe armato la mano dell’attentatore: l’ex senatore della Lega Alberto Filippi.

Non se l’aspettava proprio
Nella maniera più assoluta. No. Come potevo immaginare che dietro a una cosa tanto grave, a un attentato di mafia, ci potesse essere un industriale, un politico, un uomo che per due volte era stato nel nostro Parlamento. Incredibile. Surreale. Assurdo.

Ha provato a spiegarsi il perché?
Sinceramente non c’è nulla che possa razionalmente giustificare tutto questo. Quella persona l’ho incontrata una volta, dopo pochi mesi dal mio arrivo a Vicenza avvenuto nel dicembre 2009. Si lamentava perché il giornale, a suo dire, non seguiva correttamente la vicenda legata ai terreni del Cis. Io, ricordo, gli dissi che nel mio giornale non c’era spazio per amici o nemici, ma solo per le notizie. E così è stato. Sapevo poi che aveva continuato a lamentarsi ancora, però non l’avevo mai più visto né sentito. Per me la cosa era chiusa lì. Chi poteva pensare che a dieci anni di distanza stesse ancora covando così tanto odio. Ripeto, è tutto inconcepibile. 

Eppure è successo
Evidentemente pensava di condizionare un giornalista. Ha colpito me perché ai suoi occhi rappresentavo il giornale che non aveva dato spazio alla soddisfazione delle sue richieste. È un’espressione abnorme, inconcepibile, della campagna pluridecennale di delegittimazione del ruolo del giornalista. Una delegittimazione che ha trovato la sua massima espressione nell’uso dei social. Dove chiunque si sente il potere di dire qualsiasi cosa. Senza filtri. Senza controllo.

Tornando a quel 16 luglio 2018 che conseguenze ha lasciato in lei e nella sua famiglia?
È stata come una scossa di terremoto: quando abbiamo capito che eravamo ancora in piedi e che eravamo vivi, abbiamo ripreso la vita di prima. Per un periodo ci è stata assegnata una tutela di sicurezza. Poi è ripresa la vita di tutti i giorni. Io, in particolare, non ho cambiato nulla. Nulla nella mia sfera personale; nulla nella mia professione. Ho sempre raccontato i fatti con la massima equidistanza possibile non censurando e non offrendo sponde. E ho continuato a farlo. Sapevo di avere la coscienza a posto e per questo quell’attentato non mi ha cambiato.

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Ma avevate capito che dietro a quei cinque colpi di pistola non si nascondeva la criminalità “comune”?
Gli investigatori ci avevano detto sin dall’inizio che quei colpi erano stati esplosi da dei professionisti. Il sospetto di essere davanti a un atto compiuto in un contesto di criminalità organizzata c’è stato sin dal primo istante. Ci avevano spiegato che si era trattato di un evento particolarmente pericoloso. Avevano sparato contro una camera; un proiettile si è conficcato a dieci centimetri dalla testiera del letto di mio figlio. Avrebbero potuto ammazzarlo. I carabinieri hanno passato al setaccio gli ultimi dieci anni della mia vita. Mi avevano promesso che sarebbero arrivati ai responsabili, ma nulla poteva far pensare a quanto poi effettivamente emerso con la chiusura delle indagini da parte della Dda di Venezia. 

Promessa mantenuta
Ecco, se da un lato c’è e rimane il profondo sconcerto nel sapere di chi si è trattato; dall’altro però c’è il sollievo nel vedere che lo Stato c’è. Che lo Stato funziona. In questi cinque anni le indagini sono continuate a fari spenti, ma non si sono mai fermate arrivando, alla fine, a individuare i responsabili. E per questo ringrazio tutte le persone che in questo lungo periodo hanno lavorato all’inchiesta.

 

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