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LA BATTAGLIA DI HONG KONG

Proseguono le manifestazioni a Hong Kong contro i provvedimenti che la Cina vorrebbe introdurre per minare i valori democratici e liberali su cui si basava l’ex colonia britannica ceduta nel 1997. EPA/JEROME FAVREUn manifestante contro la governatrice Carrie Lam. EPA/JEROME FAVRE
Proseguono le manifestazioni a Hong Kong contro i provvedimenti che la Cina vorrebbe introdurre per minare i valori democratici e liberali su cui si basava l’ex colonia britannica ceduta nel 1997. EPA/JEROME FAVREUn manifestante contro la governatrice Carrie Lam. EPA/JEROME FAVRE
Proseguono le manifestazioni a Hong Kong contro i provvedimenti che la Cina vorrebbe introdurre per minare i valori democratici e liberali su cui si basava l’ex colonia britannica ceduta nel 1997. EPA/JEROME FAVREUn manifestante contro la governatrice Carrie Lam. EPA/JEROME FAVRE
Proseguono le manifestazioni a Hong Kong contro i provvedimenti che la Cina vorrebbe introdurre per minare i valori democratici e liberali su cui si basava l’ex colonia britannica ceduta nel 1997. EPA/JEROME FAVREUn manifestante contro la governatrice Carrie Lam. EPA/JEROME FAVRE

Un Paese, cioè la Cina, due sistemi. Per almeno cinquant’anni. Quando Christopher Francis Patten, ultimo governatore di nomina britannica, lasciò Hong Kong nel 1997, i patti erano questi: l’isola passava sotto la giurisdizione amministrativa di Pechino ma i valori tipicamente occidentali di democrazia e libertà, imperniati sulla rule of law di stampo anglosassone, restavano i pilastri di questa enclave occidentale in oriente. Sono passati 22 anni e questa impalcatura già da tempo traballa sotto i colpi della dittatura comunista cinese che, da quando ha preso in mano le redini Xi Jinping, ha accelerato la manovra di accerchiamento, verrebbe da dire soffocamento, alla ex colonia britannica. Sono ormai tre mesi che Hong Kong è quasi paralizzata dalle manifestazioni di chi non vuole saperne dell’invadenza e della minaccia, così viene interpretata, della “madre patria”. I manifestanti sono arrivati a occupare l’aeroporto e a cancellare i voli, bloccandone di fatto l’operatività. Una protesta clamorosa che dà l’idea dello stato delle cose in questa isola di oltre 7 milioni di abitanti, tutti ben decisi a difendere le prerogative democratiche, peraltro già scalfite da Xi Jinping con quel processo di selezione di candidati che deve avere l’imprimatur di Pechino. E che ha portato alla carica di governatrice Carrie Lam, fedele al Dragone e costretta dalle proteste oceaniche a ritirare, per ora, il progetto di legge che consentiva l’estradizione in Cina di imputati che avrebbero finito col guardare col binocolo la rule of law, altro che due sistemi. «Molto prima che le strade della città diventassero terreno di scontri – ha scritto Feliz Solomon su Time, ripreso da Internazionale - la Cina aveva già cominciato a combattere una guerra per conquistare l’anima di Hong Kong. Sotto il presidente Xi Jinping il partito comunista ha manovrato con discrezione le sue leve di controllo sociale sui tribunali più liberi, sulle scuole, i mezzi d’informazione e l’economia del territorio. “Proprio come ha represso ogni segno di dissidenza nella Cina continentale - afferma Chris Patten, l’ultimo governatore britannico di Hong Kong - si è assistito a una erosione della libertà di espressione, dell’autonomia delle università e a un indebolimento della legalità, e questo ha fatto crescere i timori della gente”». Alla Cina questa levata di scudi dei giovani di Hong Kong, spalleggiati dalla maggioranza della popolazione che teme l’avanzata della dittatura comunista, dà molto fastidio. Ma Xi Jinping, che pure non esita a usare il pungo di ferro negli affari interni, come dimostrano i campi di concentramento usati per “rieducare” gli uiguri islamici nell’indifferenza internazionale, non può mandare l’esercito a reprimere le manifestazioni. Per quanto il mondo consideri la Cina solo con gli occhiali dell’economia, una devastazione ideale della maggiore piazza finanziaria dell’area finirebbe col nuocere a Pechino. Per questo, in aggiunta all’offensiva diplomatica e d’influenza lanciata con la Via della Seta, Xi Jinping ha pensato bene di sfruttare le proteste di Hong Kong come una dimostrazione pratica di quanto male funzioni il sistema liberale occidentale riempiendo le tv cinesi di cronache degli incidenti nell’isola. Risultato? «Per i cinesi – ha osservato Paul Stapleton su Hong Kong Free Press – le scene di violenza a Hong Kong sono una conferma dei sospetti sui “pericoli” i una società libera e aperta, e fanno apparire l’autoritarismo di Xi Jinping come un’alternativa, per quanto sgradevole, più desiderabile del caos attuale della semidemocratica ex colonia britannica. Dal punto di vista di Xi, i fatti di Hong Kong potrebbero rafforzare il sostegno al sistema comunista da parte degli abitanti della Cina continentale». Meglio una democrazia disordinata e a volte inefficiente o una dittatura ordinata ed efficiente? Già il fatto che qualcuno, anche in occidente, si ponga questa domanda spiega perché nessuno faccia un plissè di fronte ai campi di concentramento degli uiguri e perché nessuno lo farebbe se a Hong Kong la Cina ripristinasse la “legalità”. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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