<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">

L’UOMO “NUOVO” DEL SUDAFRICA

Un busto di Nelson Mandela nei pressi del parlamento a Città del Capo poco prima dell’arrivo di Cyril Ramaphosa, il nuovo presidente al posto di Jakob Zuma, per il discorso  di insediamento dopo l’accettazione dell’incarico. EPA/NASIEF MANIE Cyril Ramaphosa poco dopo aver giurato da presidente
Un busto di Nelson Mandela nei pressi del parlamento a Città del Capo poco prima dell’arrivo di Cyril Ramaphosa, il nuovo presidente al posto di Jakob Zuma, per il discorso di insediamento dopo l’accettazione dell’incarico. EPA/NASIEF MANIE Cyril Ramaphosa poco dopo aver giurato da presidente
Un busto di Nelson Mandela nei pressi del parlamento a Città del Capo poco prima dell’arrivo di Cyril Ramaphosa, il nuovo presidente al posto di Jakob Zuma, per il discorso  di insediamento dopo l’accettazione dell’incarico. EPA/NASIEF MANIE Cyril Ramaphosa poco dopo aver giurato da presidente
Un busto di Nelson Mandela nei pressi del parlamento a Città del Capo poco prima dell’arrivo di Cyril Ramaphosa, il nuovo presidente al posto di Jakob Zuma, per il discorso di insediamento dopo l’accettazione dell’incarico. EPA/NASIEF MANIE Cyril Ramaphosa poco dopo aver giurato da presidente

Quello che Nelson Mandela aveva individuato come suo successore ideale arriva alla guida del Sudafrica con vent’anni di ritardo. Cyril Ramaphosa, 65 anni, raccoglie l’eredità consunta dalla corruzione di Jakob Zuma, dimessosi dalla presidenza prima che l’African National Congress e il parlamento lo sfiduciassero ufficialmente. Ora per Città del Capo si apre una fase nuova, in attesa delle elezioni fissate per l’anno prossimo che dovrebbero però confermare questo tycoon di colore, dotato di una ricchezza personale stimata in 450 milioni di dollari, alla guida del Paese. Mandela credeva in Ramaphosa, si fidava di lui. Tanto da affidargli il compito, come ha ricordato Ugo Tramballi su Il Sole 24 Ore, di «negoziare e scrivere la Costituzione provvisoria che avrebbe portato il Sudafrica alle elezioni del 1994. In questa difficile transizione, Ramaphosa lavorò con un altro giovane afrikaner, Roelf Meyer, indicato dal National Party di F.W. de Klerk, allora al potere». Furono gli anni della speranza per il Paese, gli anni in cui questo esponente della nuova élite di colore che si stava faticosamente formando sulle ceneri dell’apartheid era riuscito a fondare il sindacato nazionale dei minatori. Tra le prime conquiste di quella categoria ci furono una serie di benefici, aumenti di stipendio e migliori condizioni di lavoro. Quando tutto lasciava supporre che fosse arrivato il suo turno, incoronato dal padre della patria che si stava ritirando («A 80 anni un uomo politico deve fare il nonno»), uno dei tanti giochi di potere che avrebbero finito col minare la credibilità dell’Anc lanciò in orbita Thabo Mbeki, rampollo di una famiglia comunista che però seppe rifarsi una “verginità” politica professando fede assoluta nei dettami del libero mercato. Fu in quei frangenti che Ramaphosa, probabilmente deluso per come era andata, decise di uscire dalla politica attiva per dedicarsi all’attività imprenditoriale privata. In poco tempo riuscì ad accumulare un’ingente ricchezza che, ricorda il New York Times, più di qualcuno sospetta sia stata prodotta anche in virtù dei suoi legami mantenuti con la politica. Fu lui, infatti, a collaborare alla stesura di un progetto di legge volto a favorire la nascita di una classe imprenditoriale tra la comunità di colore. «I critici hanno sostenuto - ha sottolineato il New York Times - che quel programma ha favorito soltanto una piccola parte dei neri sudafricani, in particolare quelli strettamente legati all’Anc». Un fatto di sangue legato allo sciopero di un gruppo di minatori resta una macchia nella storia di Ramaphosa. Nel 2012 l’ex fondatore del sindacato dei minatori aveva fatto il salto e sedeva nel consiglio di amministrazione della Lonmin, una società del settore. E quando nella città di Marikana uno sciopero improvviso causò 10 vittime, Ramaphosa invocò l’intervento dell’autorità pubblica. «Il giorno successivo - ricorda il New York Times - la polizia intervenne e uccise 34 persone in quello che resta il caso di violenza più sanguinoso dalla fine dell’apartheid. Ramaphosa venne accusato di usare la sua influenza politica per mettere pressione alla polizia affinché intervenisse in modo risolutivo: un’inchiesta ufficiale sul massacro lo assolse pienamente da ogni accusa». La storia di questo personaggio indubbiamente abile ma circondato da un alone di scetticismo maturato durante i suoi anni passati a fare business, si arricchisce di un nuovo capitolo quando, pochi anni fa, decide di rientrare attivamente in politica. Sono gli anni finali di Zuma, che ha la dabbenaggine di sponsorizzare la sua ex moglie, Nkosazana Dlamini-Zuma, quale sua erede alla presidenza. La corruzione assume livelli intollerabili eppure Ramaphosa, nel frattempo assiso allo scranno della vicepresidenza, non si distingue dalla corte dei sostenitori di Zuma. Solo l’anno scorso l’ex delfino di Mandela ha cominciato a prendere le distanze. E quando Ramaphosa è stato nominato leader del partito, la sua campagna contro Zuma ha preso il volo. Ora tocca a lui. Chissà se Mandela lo riconoscerebbe. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

Suggerimenti