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HONG KONG NON CEDE ALLA CINA

Una donna sistema alcuni striscioni di protesta contro la legge sull’estradizione in Cina davanti alla sede del governo di Hong Kong. Le proteste continuano anche dopo la sospensione della proposta da parte di Carrie Lam. EPA/ROMAN PILIPEY La governatrice Carrie Lam esclude le dimissioni. ANSA/AP/KIN CHEUNG
Una donna sistema alcuni striscioni di protesta contro la legge sull’estradizione in Cina davanti alla sede del governo di Hong Kong. Le proteste continuano anche dopo la sospensione della proposta da parte di Carrie Lam. EPA/ROMAN PILIPEY La governatrice Carrie Lam esclude le dimissioni. ANSA/AP/KIN CHEUNG
Una donna sistema alcuni striscioni di protesta contro la legge sull’estradizione in Cina davanti alla sede del governo di Hong Kong. Le proteste continuano anche dopo la sospensione della proposta da parte di Carrie Lam. EPA/ROMAN PILIPEY La governatrice Carrie Lam esclude le dimissioni. ANSA/AP/KIN CHEUNG
Una donna sistema alcuni striscioni di protesta contro la legge sull’estradizione in Cina davanti alla sede del governo di Hong Kong. Le proteste continuano anche dopo la sospensione della proposta da parte di Carrie Lam. EPA/ROMAN PILIPEY La governatrice Carrie Lam esclude le dimissioni. ANSA/AP/KIN CHEUNG

«Avanti fino alla fine». È solo uno dei tanti striscioni esibiti dalle centinaia di migliaia di cittadini di Hong Kong sfilati per le strade in questo giugno infuocato dalla protesta. Potremmo definirli i tranquilli combattenti per la democrazia e la libertà, anche se il loro diritto a sfilare equivale a uno yogurt a lunga, lunghissima conservazione. Sì, perché ha una scadenza scritta sul trattato con cui, nel 1997, la Gran Bretagna dettava le condizioni di restituzione dell’isola al governo cinese: 2047. All’epoca pareva una scadenza siderale, lontana cinquant’anni, e chissà cosa può succedere in cinquant’anni. Già, ora però c’è qualcuno, nella cosiddetta madre patria, che vorrebbe accelerare. Xi Jinping, despota senza scadenza di Pechino ma omaggiato dal resto del mondo democratico per comprensibili motivi economici, ritiene il modello occidentale su cui ancora poggia Hong Kong un fastidio, un’inefficienza da eliminare. Ci aveva provato nel 2014, come al solito per interposta persona incaricata a Hong Kong, ma i 79 giorni di occupazione delle strade da parte dei giovani gli avevano dato la dimostrazione che domare questa propaggine di civiltà non sarebbe stato facile. In queste settimane ne ha avuto la riprova. In realtà quello che cinque anni fa è passato alla storia come il Movimento degli ombrelli non è che alla fine abbia ottenuto grandi risultati. Il potere di scegliere i propri favoriti all’interno delle istituzioni è di fatto passato nelle mani di Pechino, ma quando è troppo è troppo. E così, quando l’attuale governatore, Carrie Lam, ha tentato di far passare una proposta di legge che consentisse l’estradizione in Cina, cosa al momento inimmaginabile, di cittadini di Hong Kong accusati di vari reati, la ribellione è diventata una rivoluzione. Tutti in strada, ancora una volta. E all’inizio la risposta della polizia è stata violenta come non mai. Sono stati sparati proiettili di gomma sulla folla e per un attimo si è temuto il peggio. Davanti al grido «Hong Kong non è Cina», quella folla rappresentava il disperato grido di aiuto a un Occidente fin troppo impegnato a dare una mano a Xi Jinping a portare avanti il modello autocratico grazie alle grandi infrastrutture incardinate lungo la Via della Seta. Il New York Times ha rivelato che, prima che si scatenassero le proteste, Pechino aveva convocato i principali tycoon dell’economia di Hong Kong affinché non prendessero posizione contro questa proposta di legge inserita nell’agenda della governatrice. All’inizio, anche per paura di vedere compromessi affari e relazioni, i padroni del vapore hanno mantenuto un basso profilo. Poi, mano a mano che la protesta si intensificava, e tenuto conto che, nello specifico, la richiesta di estradizione avrebbe potuto col riguardare anche loro, magari col grimaldello dell’accusa di corruzione molto tipica a quelle latitudini, gli uomini del business hanno tirato il freno a mano. Morale della favola, alla fine Carrie Lam, tra le lacrime, ha rimesso nel limbo la proposta di legge rinviandola a un futuro non determinato. La marcia indietro, quasi sicuramente consigliata anche da Pechino considerato il clamore suscitato a livello internazionale, non è però bastata ai manifestanti, che vorrebbero una cancellazione sine die del progetto con incorporate le dimissioni della governatrice. «Il Civil Human Rights Front, il gruppo di attivisti alla base delle manifestazioni di massa di Hong Kong - riporta l’Ansa - chiama a una nuova mobilitazione generale alle 20 di mercoledì 26 giugno, in Edinburgh Place in Central, per dare un altro colpo alla governatrice Carrie Lam, accusata di non aver risposto alle domande partite dalla società civile, offrendo scuse ritenute non sincere». Le lancette dell’orologio, intanto, proseguono a ticchettare. Il 2047 sembra ancora lontano ma in realtà è molto più vicino di quanto non dica il calendario. Nel ’97 gli inglesi che firmarono il contratto di cessione di Hong Kong pensavano che negli anni la democrazia si sarebbe imposta anche a Pechino. Invece sta battendo in ritirata. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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