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Siamo tutti malati
di troppismo

Siamo tutti malati di troppismo
Siamo tutti malati di troppismo
Siamo tutti malati di troppismo
Siamo tutti malati di troppismo

(...) ribattezzata Stampubblica. Presumo che l’incubo della foliazione perseguiti Cdb ancora di più oggi, dopo l’accordo con John Elkann, visto che il numero delle pagine s’è raddoppiato per effetto della concentrazione di testate.

Mi sono perciò immaginato De Benedetti intento a sfogliare La Repubblica del 1° aprile. Edizione piuttosto smilza: appena (si fa per dire) 52 pagine.

Fra titoli, sommari, didascalie e testi, ho calcolato 305.552 caratteri, circa un quarto della lunghezza dei Promessi sposi. Dal computo ho escluso la pubblicità.

Tempo previsto per leggere il tutto: 392 minuti. Cioè 6 ore e mezza, che sono quelle di lavoro previste dal contratto per i medici. Ve lo vedete un chirurgo che invece di operare e visitare se ne sta in panciolle fino alle 2 del pomeriggio a leggere La Repubblica?

Con le sue 60 pagine, comprensive di annunci economici, il Corriere della Sera del 1° aprile andava persino oltre: 484.962 battute, quasi cinque volte I Rusteghi di Carlo Goldoni. Tempo di lettura richiesto: 623 minuti, pari a circa 10 ore e mezza. Ho consultato il primo numero del quotidiano milanese, uscito il 5 marzo 1876: appena quattro pagine, l’ultima delle quali a pagamento (bei tempi quando la pubblicità rappresentava il 25 per cento di un giornale). Benché le prime tre fossero prive di fotografie, occupate per intero solo da testi (compresi quelli di due minuscole inserzioni, una della «polvere contro la crittogama surrogato allo Zolfo per le Viti brevettata Conti» e l’altra dei «100 Confetti Meynet di Fegato di Merluzzo più efficaci dell’Olio, non disaggradevoli, consigliati in tutte le stagioni»), ho contato spannometricamente - non a mano, si capisce, ma con il sistema Ocr di riconoscimento ottico - 74.000 caratteri. Tempo di lettura: 95 minuti. Umano.

Che cosa sarà mai accaduto negli ultimi 140 anni per giustificare questa mutazione genetica dei giornali in mastodonti? Sì, d’accordo, oggidì ci sono più democrazia, più istruzione, più cultura, più politica, più economia, più finanza, più conflitti, più progresso, più invenzioni, più popolazione, più eventi, più viaggi, più prodotti, più salute, più soldi, più aspettativa di vita, più problemi, più spettacoli, più sport, e chi più ne ha più ne metta. Ma non staremo sbagliando qualcosa noi giornalisti, se hanno cominciato, insieme con i lettori, a stufarsi persino gli editori?

Il Giornale di Vicenza, pur con quattro pagine in meno del Corriere (56 anziché 60), il 1° aprile è riuscito a fare meglio del giornalone di via Solferino: 501.172 battute. Tempo di lettura richiesto: 644 minuti. Quasi 11 ore.

Le statistiche dell’Istat ci dicono che gli italiani dedicano mediamente alla lettura (quotidiani, periodici, libri) e ai mezzi di comunicazione (tv, radio, Internet) non più di 2 ore e 11 minuti della loro giornata. Qui s’è appena dimostrato come un’unica testata pretenda ogni mattina da loro, in linea teorica, un impegno di tempo dalle tre alle cinque volte superiore.

Che fare? Accorciare la lunghezza dei servizi? Se il rimedio fosse quello, sarei spacciato. Ma non sono affatto convinto che pubblicare soltanto notizie da 30 righe sia la soluzione, come peraltro ammaestrava in epoche lontane Nino Nutrizio, un genio del giornalismo: «Un articolo bello è sempre troppo corto, un articolo brutto è sempre troppo lungo».

Penso che dovremmo piuttosto selezionare, anziché spacciare all’ingrosso; scremare, anziché insaccare; curare nei dettagli, anziché raccontare suppergiù; distinguere, anziché confondere; interpretare, anziché orecchiare; fustigare, anziché salmodiare.

Un male oscuro ci corrode: il troppismo. Abbiamo troppo di tutto, inclusi i caratteri mobili di stampa che Johannes Gutenberg cinque secoli fa allineava con immane fatica a uno a uno nei telai delle pagine, e forse per questo badava di più a centellinare, mentre oggi si possono far piovere per via telematica sotto gli occhi dei nostri frastornati lettori.

Basta qualche esempio banale per comprendere i livelli raggiunti dal troppismo. La bottega rionale è stata rimpiazzata prima dal supermercato, poi dall’ipermercato, quindi dal superstore e ora dal megastore. Se ti serve un rasoio usa e getta, devi scegliere fra il Bic bilama (la prima lama cattura il pelo, la seconda lo taglia), il Gillette Mach 3 Turbo Razor trilama (la prima lama cattura il pelo, la seconda impedisce che rientri nel follicolo, la terza lo tronca), il Wilkinson Sword Quattro (con «quattro lame perfettamente sincronizzate») e «il nuovo sistema di rasatura a 6+1 lame Coop», che presumo stia alla barba come Attila stava all’erba, dopodiché puoi solo rivolgerti a Freddy Krueger o usare il trattorino da giardinaggio. Se devi sostituire la stampante, ti obbligano ad acquistare un apparecchio che comprende come minimo fotocopiatrice, scanner, fax, segreteria telefonica e - ci arriveremo presto - macchinetta del caffè.

A proposito di caffè. Siamo diventati l’unico Paese al mondo dove nei bar viene servito in almeno 76 modi diversi, tanti è riuscita ad appuntarsene nel corso di una sola settimana una barista (di Bologna, se non ricordo male): ristretto, lungo, molto lungo, macchiato caldo, macchiato freddo, in tazza grande, in tazza grande con acqua calda a parte, americano, amaro, molto dolce, con la panna, senza la panna, corretto grappa, corretto fernet, ristrettissimo con poco latte, in tazza fredda, alla francese, con cacao, con nuvoletta, macchiatone...

Aggiungo - udito con le mie orecchie lunedì scorso in un bar di Roma - il caffè in vetro. Anche l’occhio vuole la sua parte.

Silvio Paterno, gestore del Coffee Shop 1882 dell’Eataly di via Lagrange, a Torino, si è addirittura sentito chiedere «un cappuccino tiepido tendente al caldo», formula assai simile all’attenuante che tanto piaceva a Enzo Biagi, invocata da un giovanotto incontinente messo alle strette dai genitori della fidanzata: «È incinta, ma appena appena».

Come se non bastasse, i baristi ci hanno messo del loro per rincorrere i volubili gusti dei clienti, sostituendo il vecchio e caro espresso con mokaccino, marokkino, cremino, orzino, ginseng, danese, joker, ice bianco, paperino, viennese, creolo, imperiale, vanigliato, caramellato, schiumato, nocciolato, alla cannella, alla valdostana, alla turca, alla giavanese e infiniti altri sbrodeghezzi.

Tenuto conto che il caffè dovrebbe essere uno solo, possibilmente buono, mentre le testate e le pagine sono tante, l’eccesso d’informazione riversato da noi giornalisti sui lettori appare condonabile.

Comunque per questa settimana vorrete almeno apprezzare la buona volontà: ho usurpato un colonnino meno del solito.

www.stefanolorenzetto.it

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