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Verso l'adunata

Il sacrificio di Matteo Miotto morto per la pace in Afghanistan

Il giovane alpino thienese venne colpito durante un conflitto a fuoco il 31 dicembre del 2010 nel corso di un attacco a base Snow, nella valle del Gulistan. Effettivo al 7° reggimento, aveva 24 anni. Ogni anno nella stessa data compagni di missione e bocia ricordano il suo sacrificio con una cerimonia nel cimitero della città natia
Matteo Miotto
Matteo Miotto
Matteo Miotto
Matteo Miotto

Matteo Miotto avrebbe compiuto 38 anni pochi giorni fa, l’1 aprile. Alla vigilia di questa adunata degli alpini, a due passi dalla sua Thiene, il suo sacrificio va ricordato. Non solo perchè Matteo rappresenta un simbolo dell’alpinità di queste terre, ma soprattutto perchè era un giovane. Caduto in guerra .

Matteo era (anzi, è) un alpino vicentino, il primo a morire in combattimento dalla fine della Seconda guerra mondiale. Quando venne colpito stava difendendo un avamposto della Julia. Successe il 31 dicembre del 2010. Miotto morì nel lontano Afghanistan, in una località a circa 450 chilometri da Herat, nel corso di una missione di pacificazione che si tramutò prima in guerriglia, poi in vera e propria guerra. Il luogo del destino si chiamava base Snow (in gergo una Cop, acronimo di Combact OutPost), a Buji nella valle del Gulistan, che significa valle delle rose.

Matteo fu ucciso durante un conflitto a fuoco con i talebani. L’angelo della morte fu un vecchio, ma micidiale fucile di precisione degli anni cinquanta già in dotazione ai cecchini dell’ex Armata Rossa.

Anche nel recente passato il generale Marcello Bellacicco, che in quei giorni comandava la brigata Julia e la Multinational Land Force ad Herat ha ricordato con lucidità quelle concitate giornate in Afghanistan. «Ci fu una corsa per cercare di avvertire la famiglia della morte di Matteo. Volevo fossero degli alpini a portare la notizia. Non tutto andò bene. A partire dalle prime informazioni: non la morte di un soldato in Afghanistan, ma di un alpino nella valle del Gulistan...». Anche le dinamiche sulla morte di Matteo furono inizialmente discordanti. Colpito mentre montava di guardia, no: raggiunto da un proiettile nel bel mezzo di un lungo conflitto a fuoco.

Perchè allora ricordare Matteo Miotto poco prima di un’adunata degli alpini? Perchè i suoi vecchi compagni, i veci e i bocia alpini non lo hanno mai dimenticato. Ogni anno il 31 dicembre una commossa cerimonia nel camposanto di Thiene torna a sfiorare con dolcezza la memoria di Matteo e a rievocare il suo sacrificio. Aveva appena 24 anni l’alpino della 269a compagnia alpieri del 7° reggimento di Belluno che si trovava in missione. Matteo dopo la morte venne promosso sul campo primo caporal maggiore, gli sono state conferite nell’agosto del 2011 la “Croce d’onore alle vittime di atti di terrorismo o di atti ostili impegnate in operazioni militari e civili all’estero” e, nel dicembre 2012, la “Medaglia d’argento al valore dell’Esercito”.

La sua morte, nel momento in cui la guerra batte ancora più forte alle porte dell’Europa, in un conflitto tra Russia ed Ucraina che evoca spettrali paure, ricorda che la pace è un processo complicato.

Ricapitoliamo. Nelle storie di questi soldati caduti per la pace in Afghanistan ci sono i nomi di luoghi impervi ed ostili, da controllare con missioni sfibranti di ore, sotto tensione per il rischio di una mina o di un agguato. Alcuni di loro erano istruttori che affiancavano i soldati afghani per renderli un esercito vero, capace di seguire un piano. Altri furono uccisi da talebani infiltrati. Le tragedie dei 53 italiani che hanno perso la vita in Afghanistan compongono indirettamente anche la storia della missione internazionale.

L’affetto per la sua terra Matteo con il tricolore italiano a bordo di un mezzo militare
L’affetto per la sua terra Matteo con il tricolore italiano a bordo di un mezzo militare

All’inizio, nel 2002, questi soldati erano confinati nella regione di Kabul in un contesto relativamente amichevole, poi quando i talebani si riorganizzarono e il governo afghano mostrò tutta la sua incapacità a portare benessere, tentarono di espandersi. Lo sforzo fu massimo, in Afghanistan, nel 2010-2012 quando con 4.200 soldati italiani aumentarono anche le morti per incidenti o malori.

Il 2013 fu l’anno dell’ultima nostra vittima, segno che, da allora, si pensò più a difendersi che ad aiutare. Abbandonate le basi avanzate, ridotte al minimo le uscite, i soldati italiani operarono per l’autodifesa e l’uso di sistemi d’arma capaci di soccorrere in (quasi) sicurezza le truppe afghane che combattevano, loro sì, i talebani.

Andarsene infine, con un Afghanistan sulla soglia della guerra civile ha certificato un fallimento nato dalla somma degli errori commessi nel corso degli anni.

Quando Miotto partì per l’Afghanistan nel suo testamento lasciò scritto che in caso di morte, avrebbe voluto essere sepolto in quella parte di cimitero nella quale riposavano i Caduti della prima guerra mondiale. Matteo riposa vicino a due “ragazzi” caduti nel 1916 e nel 1917 durante la prima Guerra mondiale. Tre giovani che hanno perso la vita indossando l’uniforme dello stesso Paese, in guerre così lontane e diverse.

«Ricordo l’ultima chiamata a mezzo satellitare dall’avamposto in Gulistan - raccontò il papà di Matteo, Franco - era il 30 dicembre 2010, l’ultimo suo giorno. Chiamata tanto inattesa quanto gradita».

«Ciao papà. Siamo qui, un manipolo di fratelli. Sai, abbiamo qualche problema di dissenteria ma questo non ci toglie sonno e allegria. Stasera ho un po’ di febbre, ho guardia da mezzanotte alle sei, ma con un paio di tachipirine e il freddo della notte, si può fare. C’è poca acqua, l’elicottero non si è visto, ma considerando che tra breve sarò a casa, va tutto bene».

Oggigiorno risuonano ancora più cupe e premonitrici la sue parole in questi tempi oscuri e difficili da declinare nella parola pace. Per questo, ancor di più, le cicatrici del dolore impresse nei suoi cari paiono squilli di irrisolvibili riflessioni. «Ne valse la pena?».

Andrea Mason
andrea.mason@ilgiornaledivicenza.it