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La spunta blu

Diciannove coltellate

Una scena dal film "La bestia nel cuore"
Una scena dal film "La bestia nel cuore"
Una scena dal film "La bestia nel cuore"
Una scena dal film "La bestia nel cuore"

«Non è facile fermare un sasso quando è uscito dalla mano, né un discorso quando è uscito dalla bocca» (Euripide)
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Marianna è stata uccisa in un pomeriggio di giugno sulla rampa del garage di casa. Quando pensiamo alla morte ci chiediamo sempre quando sarà. A me a volte viene da pensare anche dove. Sì, dove morirò? In ospedale, a casa, da solo o abbracciato a qualcuno che mi vuole bene, in un luogo di bellezza o nella desolazione? I femminicidi hanno spesso per teatro luoghi desolati: garage, scale, cortili, parcheggi. Sono luoghi di passaggio, non-luoghi, spazi disadorni, orfani di identità, di misericordia, di sentimenti. Anche Marianna è stata uccisa in uno di questi non-luoghi: sulla rampa del garage, tra pareti di cemento ammuffito lasciate al grezzo, cancelli di metallo scuro, odore di pneumatici, olio e sudore. Luigi, il suo ex, l’ha colpita con 19 coltellate l’8 giugno 2019, a Montegaldella. Per 19 volte ha conficcato nella carne di un essere umano un coltello da sub. Alcuni colpi sono stati inferti quando Marianna era già a terra, in una pozza di sangue. I due si erano incontrati dopo essersi lasciati, mentre lui stava raccogliendo le sue cose dalla casa in cui avevano convissuto. Lei non si fidava, per questo aveva registrato tutto l’incontro con il telefono e aveva chiesto a un amico di assistere all’incontro: anche l’amico è stato ferito gravemente. Ho scelto di raccontare questa storia, ancora una volta, in questi giorni feroci di feroce violenza: uomini che odiano e uccidono le donne, ancora e ancora. Sono cinque finora i femminicidi in Italia a settembre; quarantasette dall’inizio dell’anno; solo oggi due, a Brescia e Cosenza, in meno di dodici ore. L’assassino di Marianna è stato condannato a 20 anni di reclusione nel gennaio scorso, confermati in appello. Ho scelto di riannodare i dolorosi fili della sua storia perché le motivazioni della sentenza di primo grado dicono molto di qualcosa che ci tocca tutti e che è l’unico vero minimo comun denominatore di questa scia di sangue che dovrebbe far risuonare le campane delle chiese come quando lo scirocco annuncia alluvioni e sciagure: assassini e vittime non si conoscevano, eppure le loro storie si assomigliano tutte; cosa cuce insieme queste trame? Non so dare altre risposte se non la cultura. Siamo immersi in una cultura che arriva da lontano e che nutre il nostro stare insieme nelle comunità in cui viviamo. Cultura in senso lato, nel suo significato antropologico, E la cultura è soprattutto lingua, parole, simboli, codici da condividere per comprendere e condividere. Nelle motivazioni della sentenza di condanna dell’assassino di Marianna il giudice sostiene che Luigi ha ucciso in preda a un raptus senza crudeltà. Di qui la condanna a vent’anni, nonostante la procura avesse chiesto l’ergastolo. Non sono mai stato un giustizialista che invoca pene sempre più severe per gli autori di questi reati. Non credo che la terapia sia la minaccia di “marcire in carcere”. Non discuto qui un codice penale che prevede uno sconto di pena per il rito abbreviato o se vent’anni sia un tempo congruo ed equo. Vorrei solo puntare la lente su quelle due parole: raptus e crudeltà. Sono parole scritte in una sentenza, nel gergo dei tribunali, che risponde a esigenze tecniche, non all’onda delle emozioni. E però scavano una distanza smisurata tra la legge e la realtà, tra la lingua della giustizia e la lingua che parliamo bene o male tutti, con la quale comunichiamo in ogni singolo istante delle nostre esistenze, per capirci e per condividere le nostre esperienze. Cos’è, se non crudeltà, conficcare nella carne di un essere umano un coltello da sub per 19 volte, fino alla morte, mentre le urla si spengono in rantolo, mentre il sangue insozza mani, abiti, occhi? Come può non essere definita crudele una morte come questa? Come si può accettare la via d’uscita del raptus, quando la vittima sapeva che quel giorno avrebbe corso un pericolo, al punto da registrare tutto e chiedere aiuto e assistenza a un amico? Come può esserci una tale distanza tra la legge e la realtà, tra giustizia e comunità? Come può esserci spesso, troppo spesso, la scorciatoia del raptus per attenuare la profondità e l’ampiezza della violenza, per scolorire le tinte della ferocia, abbassandone il volume, strozzando l’urlo che per 47 volte quest’anno ha già spezzato vite di donne per mano di uomini? Perché i raptus dovrebbero colpire solo gli uomini verso le donne e mai le donne verso gli uomini? Me lo chiedo da professionista dell’informazione, consapevole che purtroppo esiste anche una distanza tra comunicazione e realtà, che spesso, troppo spesso, sono articoli di cronaca nera iniettati di questa stessa cultura matrigna della “bestia nel cuore” a offrire attenuanti ai carnefici, come quando le vittime vengono descritte “belle e impossibili”, come quando si indugia sull’abito, sul trucco, sullo stile di vita, quasi fossero istigazioni alla ferocia. Come quando si mettono in relazione un delitto con una separazione, come se esistesse qualcosa più di una sequenza temporale, come se si volesse suggerire un nesso di causa ed effetto, quando l’unico nesso è tra la violenza e gli effetti della violenza. Nient’altro. I femminicidi sono un’emergenza che ci tocca tutti, perché arrivano dallo stagno di una cultura a cui tutti portiamo ogni giorno il nostro piccolo grande secchio d’acqua, una cultura basata sull'idea del possesso: l'uomo proprietario della donna, del suo corpo e della sua anima. Una cultura ancora intrisa di retaggi remoti e arcaici, che continuano a dare un vantaggio all’uomo sulla donna, fino ad offrire scudi e ripari, persino nelle pagine dei giornali o dei codici, fin dentro le aule dei tribunali, per arrivare al "raptus senza crudeltà", che fa quasi apparire il carnefice una vittima di qualche spirito demoniaco arrivato da chissà dove. Se un demone c'è, sta nella cultura. Dai tribunali ai giornali, non possiamo che partire da qui per ridurre la distanza che ancora separa le parole dalla realtà e per lasciar morire di fame la “bestia nel cuore”. Perché parcheggi, rampe di scale, garage, luoghi senza volto né bellezza né pietà, non siano più teatro di morti crudeli e ingiuste. Come quella di Marianna, di Rita, di Angelica, di Chiara, di Giuseppina...

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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