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L’AUTORE. Giuliano Fratantonio, dalla biblioteca di Laghetto, Vicenza

Volevo chiamarti Nadir
Sei il nostro “ranocchio”

Giuliano Fratantonio


Volevo chiamarti Nadir. Nessun riferimento astronomico, allora. Solo un omaggio al Maestro e alla dignità dei suoi respinti, sempre in cammino in direzione ostinata e contraria.
O almeno così t’immaginavo quando la sera, nella speranza che quel velo di carne che ancora si frapponeva tra la mia bocca e le tue orecchie in formazione facesse vibrare i giusti suoni, ti intonavo parole di benvenuto.
Offrivi allo schermo le tue gambine flesse: eri un capretto che correva su in alto, lungo il sentiero che aggira le balze, fino a Croce Summano, e io al tuo fianco ti passavo il ristoro della borraccia, il mio testimone; eri un girino ormai pronto a spiccare il gran salto fuori dal liquido che era il tuo mondo, verso la vita: eri il nostro Ranocchio.
Volevo chiamarti anche Giallo. Non per lo Zenit, ma perché quello era il colore delle trombe d’oro della solarità, quand’ombra non rendono gli alberi. Nell’illusione di garantire in te la presenza anche dell’altro Faro della mia ormai lontana adolescenza.
Perché noi siamo fatti soprattutto delle esperienze altrui, e avrei voluto insegnartelo. Solo così possiamo essere nani sulle spalle di giganti. Altrimenti siamo il nulla, pura presunzione.
Perché tu eri il prima e il dopo, lo spartiacque; la ragione di tutto: una quadratura del cerchio che stava lì e non lo sapevo. Eri la mia Epifania.
Ti ho portato sul petto tra il frinire delle ultime cicale e dei grilli, svolazzi di pipistrelli, lento fluire di anse di fiume; ti ho nominato gli uccelli di un tramonto infinito, inebriato dall’idea di trasmetterti un sapere che non sapevo di avere, che non sapevo di non sapere.
Tu dormivi e il ritmo del tuo respiro era il battito del mio cuore, il pulsare della mia vita. Era quella la mia estate.
Ho scalato vette stringendo tra le mani il tuo cappellino. Tu dormivi sempre. Ti reggevo la testina, la tenevo dritta; la accarezzavo, l’annusavo. La baciavo.
La baciavo sempre, la tua testa, come per rendere più lunga quell’estate dai colori così accesi che non si erano visti mai. T'indicavo marmotte, seguendone i fischi e scovandole per te tra le rocce, coi miei occhi affannati. I tuoi erano chiusi, dormivi. Quanto dormivi…
Poi è venuta la stagione delle stanze fredde, delle brande, degli aghi, delle mascherine, delle cannule, delle angosce. Il caso ha estratto per te numeri buoni e il tuo capo è tornato al tepore del guanciale consueto. Ma estate e inverno s'intrecciano e altri cuccioli non hanno più riabbracciato i loro eroi di peluche.
Gocce di sale nascoste dietro a un sorriso, per ingannare tua madre, giovane leonessa spaurita; per non farle udire il ruggito roco, spezzato del suo re dalla criniera arruffata. Per tentare di farle vivere ancora l’illusione di una coda d’estate.
L'equinozio ci ha colti di sorpresa, portandoci verso le lunghe notti di pioggia degli stenti dei tuoi piccoli passi. Il tuo cammino è stato zoppo, ma fermo.
Una strada tortuosa, verso una meta che è solo mia e di tua madre e che tu forse non riconoscerai mai. Ma la percorri, con la claudicante sicumera di chi non sa dove sta andando ma ignora che dovrebbe saperlo.
Per te la leonessa è cresciuta, più in fretta di quanto i suoi anni chiedevano, e si è riaperta alla vita: la meraviglia di un altro sorriso, l'ardore di una nuova estate.
Ora che ti porto per mano e parliamo, giochiamo e assieme ridiamo so quello che tu mi hai insegnato: che Zenit e Nadir giacciono su un unico asse e sono distinti soltanto dalla superbia di un granellino di polvere che crede di essere il centro di tutto. Che tinte infuocate danno il calore di paglia che brucia e la vita poi nasce da quel che rimane. Grigio. Come la mia barba. Sei tu la mia estate.
(da biblioteca di Laghetto, Vi)

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