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L’AUTORE. Michaela Lazzarotto, segnalazione della biblioteca di Dueville

Tre figli, tre continenti

di Michaela Lazzarotto

Michaela Lazzarotto

Gemma ad un certo punto della sua vita ebbe a che fare con i fusi orari e con i “fusi” da fuso orario.

Quando era ancora una giovane mamma di tre pargoli più o meno scatenati, immaginava il suo futuro di nonna a spingere passeggini, a fare giri al luna park, a portare i nipoti alle feste di compleanno e in biblioteca.

I suoi figli però avevano progetti differenti e mire ambiziose, niente a che vedere con parchi giochi sotto casa e passeggiate.

Il primo, Beniamino, durante l’Erasmus si era innamorato di una ragazza che viveva a Palembang, Indonesia, esattamente a cinque fusi orari avanti di differenza, il che significava che se lui stava facendo colazione con croissant e cappuccino lei stava mangiando nasi goreng per pranzo.

Il secondo, Bruno, sempre per colpa dell’Erasmus, aveva perso la testa per una ragazza di Mississauga, Canada e, a differenza del fratello, quando lui si gustava una pizza serale, la sua dolce metà canadese aveva appena terminato il pranzo perché a Missisauga erano sei ore indietro.

Il bello però doveva ancora venire, perché qualche anno dopo anche il pulcino di casa, Benedetta, si innamorò di un giocatore di rugby proveniente nientepopodimenochè da Christchurch, nome improponibile per Gemma, ma che avrebbe segnato per sempre il suo futuro di suocera.

Infatti quando scoprì che quel posto si trovava in Nuova Zelanda per prima cosa svenne, poi se ne fece una ragione, ma da quel giorno in poi per ripicca chiamò il suo futuro genero, quell’energumeno che un giorno avrebbe portato la sua bambina lontano da lei di ben dieci fusi orari, “il Maori”.

Anche Benedetta dovette farsene una ragione e spiegò al “Maori” che la sua mamma lo chiamava così per vezzeggiarlo, perché gli voleva un gran bene.

Avendo fatto esperienza con i due precedenti innamoramenti, Gemma smise di stupirsi se sentiva Benedetta conversare di notte con il “Maori”, oppure se la sentiva bisbigliare in pieno giorno perché temeva di svegliare i suoi futuri suoceri dicendo al Maori quanto gli voleva bene e quanto le mancava.

Gemma dopo qualche anno dovette abituarsi a vivere aspettando con trepidazione un preciso momento dell’estate, la sua estate ad essere precisi, non quella dei suoi figli che erano andati a vivere con propri amori a cinque, sei e dieci fusi orari di differenza, Benedetta per di più con le stagioni rovesciate.

Gemma aveva chiesto solo una cosa ai suoi ragazzi: di potersi ritrovare una volta all’anno in quel paese da cui erano partiti tutti e tre e loro avevano accettato il compromesso: se salute, lavoro e finanze lo avessero permesso, non avrebbero mancato all’appuntamento con mamma Gemma.

Ogni estate quindi, Gemma preparava l’accampamento per accogliere i “fusi” da jet lag e i rispettivi consorti, non stupendosi se per i primi giorni uno aveva voglia di mangiare il pollo di mattina o il cornetto con il caffè di sera.

Che importava se doveva convivere nel caos totale, con gente che si addormentava di giorno e che girava per casa di notte sveglia come un grillo.

Per non dire della lingua: Gemma ogni volta ci scherzava su dicendo ai suoi figlioli che la sua casa era come la Torre di Babele, un crocicchio di lingue e di accenti che lei si era sempre rifiutata di imparare, tanto, diceva – quando venite qui trovate quello di cui avete bisogno: da mangiare, da dormire, un giardino per leggere e chiacchierare e soprattutto me, la vostra mamma – .

Era proprio vero, quando i tre fratelli si ritrovavano dopo undici mesi era come se tre continenti si riunissero nel blocco originario, la Pangea, e tutto tornasse come tanti anni prima, quando erano piccini e andavano al parco, in biblioteca, alle feste di compleanno con mamma Gemma.

Il “maori”, l’indonesiana e la canadese li prendevano in giro quando vedevano Beniamino, Bruno e Benedetta appiccicati l’uno all’altro per giorni interi, a raccontarsi tutto quello che non avevano potuto dirsi per colpa dei fusi orari.

Un po’ però invidiavano l’abbraccio dei tre fratelli con quella mamma che aveva sognato per tanto tempo di girare per le vie del paese con i nipoti nel passeggino in tutte le stagioni, perché in quell’abbraccio vedevano tutto il senso dell’esistenza: l’amore, la vita, la morte.

(da biblioteca di Dueville)

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