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L’AUTORE. Agnese Pana, segnalazione della biblioteca di Montecchio M.

Quello che la foto non dice

di Agnese Pana

Agnese Pana

Questa è la telecronaca di uno scatto, di un’emozione.

Questa storia ci porta in Sudafrica, nel parco naturale Kruger, un eden terrestre esteso quanto il Galles, dove la fucina di madre natura incessantemente forgia quanto di più straordinario si riesca a immaginare. Chiudete gli occhi e pensate a una distesa sconfinata di savana che si trasforma a ogni cambio di stagione, disseminata di bufali, gnu, antilopi, zebre, elefanti, licaoni, e poi ancora leoni, giraffe, coccodrilli, leopardi, uccelli, di animali curiosi che solo il tempo porta pian piano a scoprire e riconoscere. Chi, come me, frequenta con assiduità il Kruger sviluppa una sorta d’ingordigia compulsiva, che induce a ingoiare ogni giorno centinaia di chilometri di strada battuta con la stessa voracità con la quale si mangiano i frutti di stagione, seducenti, appetibili ma temporanei. Si diventa consapevoli che il tempo è limitato, che ogni secondo è prezioso, che ogni metro di strada offre potenziali straordinari incontri, in uno scenario dove gli attori, la flora e la fauna, interpretano la loro parte senza un copione preciso. E’ una smania che porta a svegliarsi all’alba, quando le prime luci svelano la magnificenza della savana, per avventurarsi senza sosta nei suoi angoli più nascosti, e rientrare al campo base solo al crepuscolo quando il sole imbratta d’arancio il cielo, scende a vista d’occhio all’orizzonte e smuove paure ataviche, che suggeriscono all’uomo che è tempo di farsi da parte perché ciò che nell’oscurità avviene sfugge al suo controllo. Questo giorno di Agosto, il tredicesimo trascorso nel parco, non fa eccezione. Dall’alba mi aggiro fra alberi di sicomoro e acacie lungo il letto di un fiume in secca in traiettorie scomposte, affidandomi al caso nella speranza di qualche incontro speciale. Nonostante il calendario determini che qui è inverno, il sole è accecante, il termometro segna trentatré gradi e la stanchezza accumulata inizia a farsi sentire.

Mi bruciano gli occhi, arrossati dal vento, dalla polvere, privati degli occhiali da sole perché non voglio rinunciare ai colori genuini della savana che le lenti mortificherebbero. Memore di ciò che sostengono gli etologi, ossia che gli avvistamenti sono meno probabili nelle ore più calde, cedo quindi alle lusinghe di una pausa per un ristoro veloce all’ombra di un albero di fico, per un panino, chiudere gli occhi qualche istante e riprendere le forze. Confido nelle leggi della statistica e probabilità insomma, ma il caso prende il sopravvento e improbabile, eppur possibile, come una scala reale alla prima mano di poker, ecco sbucare da un arbusto spinoso un maestoso leopardo. Non è quello che definirei un avvistamento bensì un’apparizione, poiché non sono io a scorgerlo ma lui a svelarsi, a concedersi a me. E’ di una bellezza surreale, imbarazzante, commovente, quasi eccessiva. Si aggira sornione nel letto in secca del fiume, fiuta l’aria per poi accovacciarsi in un anfratto d’argilla nascosto da una fitta sterpaglia. Mi chiedo se cerchi anche lui un momento di riposo, ma qualche istante dopo capisco le sue intenzioni, quando vedo un branco d’impala avvicinarsi a una pozza d’acqua lì accanto. Le antilopi bevono ignare della presenza del leopardo, che invece le ha attese pazientemente, le scruta e le studia. Temo e spero che qualcosa stia per succedere, è così è. Il leopardo con due balzi fulminei piomba sullo specchio d’acqua come un sasso scagliato contro un vetro. Le antilopi come schegge impazzite, chicchi di mais gettati nell’olio bollente, come una pentola a pressione colma di fave scoperta a fuoco vivo si aggrovigliano in un nuvolo informe di zoccoli, di corpi elettrificati, di polvere, acqua, fango. L’odore di urina e feci si mescola a quello della salvia e patata selvatica. Trattengo il fiato finché riappare lui, statuario e fiero mi fissa esibendo il suo trofeo di caccia fra i denti. Gli occhi giallo ocra trafiggono le mie pupille e ci intendiamo. Come un acrobata a fine numero cerca la mia ammirazione, che gli accordo scattando una foto.

Pochi istanti dopo scompare con la sua preda nella boscaglia.

Rimango per qualche minuto in silenzio, tramortita. Alla sera di ritorno al campo una doccia calda e due gocce di collirio mi danno sollievo, ma nel buio della notte scesa sulla savana sento ancora addosso la potenza di quegli occhi ocra che ho bisogno di elaborare nella camera oscura dentro di me, per dare forma e voce a quello che la foto non dice.

da biblioteca di Montecchio M.)

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