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L’AUTORE. Massimo Fagarazzi, segnalazione della biblioteca di Creazzo

Le luci nella Casa Rossa qualche notte fa
Gli Alphaville cantavano Forever young

di Massimo Fagarazzi

Massimo Fagarazzi

Era un pomeriggio del settembre 1984, gli Alphaville cantavano Forever young e il tempo stava cambiando, piegandosi all’incombere dell’autunno. Avevo passato tutta l’estate in compagnia di Giusep e Frezzolini, i migliori amici che un ragazzino di dodici anni potesse mai desiderare.

Giusep assomigliava vagamente a Ringo Starr, un po’ più spettinato, un po’ più teppista, se possibile. Un monello capace di fregare anche il diavolo. Tutto il contrario di Frezzolini, che pareva più svampito di una vecchia comare. Teneva lo sguardo costantemente puntato verso il basso: se qualcuno lo metteva in imbarazzo, lui accennava un mezzo sorriso e poi guardava per terra.

Ogni tanto Giusep lo derideva e gli mollava un buffetto in testa, così, come per svegliarlo.

Quel pomeriggio nel quartiere di San Lazzaro soffiava un vento di tramontana, fresco, sottomesso a un sole che ancora scaldava la pelle. Io, Giusep e Frezzolini inforcammo le bmx e pedalammo come saette lungo via Leoncavallo, spingendo forte sui pedali, correndo a perdifiato con le ultime energie che ci donava l’estate. Le case sfrecciavano ai nostri fianchi accompagnandoci veloci verso via Bellini, dove si trovava la nostra scuola media. Le bmx volavano e noi volavamo con esse; dietro di noi volavano le nostre ombre. Ci venne incontro un incrocio: gli occhi guizzarono a destra e a sinistra, a giudicare il flusso dei veicoli, a cercare gli spiragli giusti. Piombammo nel traffico lento e proseguimmo a ruota libera, con una piega da motociclisti per affrontare la curva di via Corelli e scattare in direzione dei Campi, un territorio per la maggior parte incolto e pieno di boscaglia, punteggiato dai ruderi di alcune fattorie abbandonate.

Oltrepassammo un ponticello di cemento segnato dal passaggio di un trattore, quindi ci inoltrammo nella campagna saltando zolle di terra e fiancheggiando un filare di alberi, fermandoci solo una volta raggiunto un cumulo di mattoni abbandonati. Parcheggiate le bici all’ombra di un gelso, più in silenzio che conversando, conquistammo una radura isolata e iniziammo a costruire un forno per hot-dog, realizzando come prima cosa una base ampia e piatta. Giusep suggerì di disporre i mattoni in maniera che il vento potesse alimentare il fuoco, poi colmammo le fughe con della terra argillosa presa dalla sponda di un fosso. L’argilla ci servì anche per fissare un pezzo di grondaia alla sommità del forno, una specie di canna fumaria; infine scavammo una trincea profonda trenta centimetri dove riporre la cenere. Così facendo, secondo il mio Manuale del Trapper, in poche ore il fuoco avrebbe creato uno strato di braci dove cuocere i würstel, mentre all’interno si sarebbe preservata la temperatura adatta alla cottura del pane.

Duecento metri più a nord, forse un poco più distante, si ergeva una fattoria abbandonata che si vociferava fosse infestata dai fantasmi. Tutti la chiamavano «la Casa Rossa» a causa del colore dell’intonaco che la ricopriva. I muri scrostati, circondati da una staccionata, facevano da sfondo a un cortile ricoperto di sterpaglie e cocci rotti. I corridoi e le stanze all’interno di quella dimora avevano tormentato la nostra fantasia per tutta l’estate.

Richiamati da una curiosità indomabile ci muovemmo verso la fattoria, percorrendo sentieri minuscoli e polverosi. Arrivammo nei pressi di un cespuglio di rovi: a poca distanza da noi incombeva la Casa Rossa, silenziosa come la cappella di un cimitero. Le finestre erano scure caverne imperscrutabili, chiuse da infissi marci oppure sbarrate da assi di legno.

Sull’ala destra dell’edificio si alzava una tozza torre: in alcuni punti le piante rampicanti si erano avvinghiate ai muri, inerpicandosi verso il tetto. «Un mio amico dice di aver visto delle luci aggirarsi all’interno della Casa Rossa, qualche notte fa» mormorò Frezzolini.

«Davvero? Allora prima della fine dell’estate dobbiamo esplorarla» ribatté Giusep.

«Sei matto? Nessuno ha mai avuto il coraggio di entrarci!»

«Nessuno prima di noi» puntualizzai, «quindi prima della fine dell’estate dobbiamo assolutamente esplorarla.»

Girammo le bici e tornammo verso casa. Il vento disperdeva in cielo locomotive di nuvole che ora, al tramonto, assomigliavano a dei rossi binari protesi verso via Leoncavallo.

Era la fine dell’estate del 1984, un sole giurassico bruciava sopra i Campi, e gli Alphaville cantavano Forever young.

(da biblioteca di Creazzo)

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