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L’AUTORE. Gian Nico Tandrini, segnalazione della biblioteca di Arzignano

La stagione degli abbandoni
E sono di nuovo le ore 17 o dintorni

Gian Nico Tandrini


Sorrisi. Inevitabile, alla vista di quei piccoli occhi blu, un po’ spaventati ma attenti, che fissavano i miei da quando, alzato un lembo dello spesso strato di cotone che la copriva, la destai dal sonno ristoratore.
Erano le 17 o dintorni di venerdì 1 luglio 2005, un’anomala giornata d’estate con un violento temporale che, circa mezz’ora prima di mezzogiorno, si abbatté in zona, provocando allagamenti e un brusco calo della temperatura.
Alla fine di esso, con l’automobile andai, stranamente, verso la popolosa ex frazione di San Zenone: percorrendo Via Marchetti, all’incrocio a sinistra con Via Po vidi, sul ciglio destro della strada, un cucciolo di gatto, vicino ad una enorme pozzanghera; un attimo e fu nelle mie mani calde. Erano le 12.05: anche un amico, Federico, si fermò con il suo autocarro carico di sabbia e scese per dare un aiuto. Sapevo che non potevo tenerlo e così tentai di lasciarlo a lui, che viveva in collina ed aveva altri gatti.
Cortesemente, e un po’ dispiaciuto, rifiutò, per evitare problemi con la moglie, disse, salendo sul grande veicolo che subito si allontanò rumorosamente.
Parlammo nemmeno un minuto, poi tutta la mia attenzione fu per lui, anzi per lei (capii guardando il posteriore): era bagnata fradicia, molto fredda, con forti tremori continui, incapace di miagolare e di reggersi sulle zampe.
Nei 3-4 minuti necessari per raggiungere l’ambulatorio non smise di tremare ed ebbe vomito e diarrea: il veterinario fece subito una visita generale, 2 iniezioni (un anti-infiammatorio e un antibiotico) ed infine l’avvolse in alcuni spessi strati di cotone, per tenerla al caldo.
Chiesi se sarebbe sopravvissuta, quando avrei dovuto portarla per una visita di controllo e quando avrebbe potuto mangiare qualcosa: 50%, domani mattina, stasera un poco, disse sbrigativamente mentre si accingeva ad entrare in sala operatoria per un’altra emergenza.
Con lo strano fagotto bianco, posto al sicuro tra mano destra e petto, attraversai la saletta d’attesa ringraziando le persone presenti per la precedenza concessa, andai nel magazzino della ditta dove lavoravo e misi il tutto sul fondo di una scatola di cartone molto grande: stetti lì per più di un’ora, di guardia, alzando ogni tanto il soffice strato di cotone per capire le sue condizioni, finchè i tremori cessarono del tutto e finalmente si addormentò, sfinita; mi tranquillizzai e andai via.
Verso le 17 ritornai: dopo lo scambio di sguardi raccontato e felice perché la vita era ancora in lei, la presi tra le mani per accarezzarla e per capire, quanto possibile, come stesse; niente più tremori, vomito o diarrea, il corpo caldo, pulii occhi, naso, orecchie e pelo e la feci camminare un po’, sempre dentro lo scatolone, dopo aver tolto l’ormai inutile cotone, sporco di tutto.
Ora potevo osservarla con calma: aveva circa 4 settimane, gli occhi ancora blu come tutti i cuccioli di felini alla nascita, il mantello, difficile da descrivere anche perché molto piccola, nero, grigio e marrone chiaro, con macchie varie e striature nere diffuse, mento e sottomento quasi bianchi; aveva solo metà coda, sicuramente dalla nascita, poiché l’estremità non presentava ferite o cicatrici, terminava semplicemente lì.
Oggi è sabato 1 luglio 2017, sono passati esattamente 12 anni e qualche ora da quando, un’anonima mano bastarda, vigliaccamente gettò sul bordo di una strada quei pochi etti di vita: è ancora con me, dalla fine del 2006 insieme ad un gatto spettacolare bianco e nero, il grande Cheto; per lei scelsi il nome di Monì Monìn, poi ridotto a Monìn, su suggerimento di mia mamma ed ispirato ad una storia d’altri tempi, troppo lunga da raccontare.
Sono le 17 o dintorni e Monìn sta dormendo sulla “mia” sedia in cucina: per il finale necessito del suo aiuto e devo, purtroppo, svegliarla.
Provo avvicinando il mio muso barbuto al suo peloso, confidando soprattutto sul mio olezzo ailurese (ovvero buon odore di gatto): seppur soli 20 centimetri separino i nostri nasi, lei continua a dormire, per cui devo tentare con un leggero soffio sul muso.
Dopo pochi secondi si desta, tranquilla: mentre le sue iridi, causa l’intensa luce, in meno di un secondo si allargano verso il centro a formare strette pupille verticali lentiformi, leggermente convergenti verso l’alto, i suoi meravigliosi occhi verdi mi fissano, sereni; così l’immagine di quei piccoli occhi blu, un po’ spaventati ma attenti, che….. ritorna più vivida che mai, piena di forza, dolcezza e speranza. Sorrido. (da biblioteca di Arzignano)

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