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L’AUTORE. Cirillo Lunardi, dalla biblioteca di Quinto Vicentino

Il fucile di Gnagne

di Cirillo Lunardi

Cirillo Lunardi

Si chiamava Giovanni, ma per tutti era Gnagne, soprannome che si ritrovò appiccicato addosso per un difetto di linguaggio, marcatamente nasale, in un’epoca in cui le persone si identificavano con nomignoli (le mende) che spesso mettevano in evidenza difetti fisici. Allegro, positivo occhi vivaci, piccoli, di forma allungata all’orientale, baffi arricciati, un mozzicone di sigaro tra i denti. Fumava anche la pipa per rilassarsi. Abitava a Quinto Vicentino, aveva sposato Rosa De Menego . Ebbero 13 figli di cui 2 morirono in tenera età. Di 11 rimasti, 9 erano maschi e 2 femmine: Maria e Aìda morta tragicamente nel bombardamento della sua casa. Quel giorno, il 22 marzo 1945, Aìda aveva le doglie, stava per partorire. Per Gnagne fu una prova molto dolorosa. Aveva combattuto sul Carso la prima guerra mondiale con i bersaglieri. Quando partì per la guerra, a casa aveva 5 figli ancora bambini. Della guerra non parlava volentieri ma era orgoglioso della sua divisa. Aveva conservato con cura la tromba, il cappello piumato e la bicicletta pieghevole, modello Norge, in dotazione all’Arma.

La caccia era la sua grande passione. In estate, con largo anticipo sulla data di apertura della caccia, si rivolgeva a mio papà, allora presidente della locale sezione cacciatori, per il rinnovo della licenza. Mio papà gestiva una rivendita di munizioni per la caccia. Un giorno Gnagne entrò nel negozio con Leo al guinzaglio, un bracco tedesco di grossa taglia, pelo corto e liscio di colore grigio scuro con chiazze marrone. Faticava a controllarlo, era sudato, aveva il fiatone. Indossava un giaccone di fustagno verde, consunto dall’uso. Dietro, sul fondo schiena aveva una grande tasca (la ladra o la liorara) dove il cacciatore riponeva la selvaggina. In testa un cappello di panno. «Piero - disse a mio papà - stamattina sono andato dal dottor Bassato, per un certificato per il porto d’armi. Senza visitarmi mi ha detto: “Gnagne, per i prossimi 50 anni non venire più in ambulatorio. Sei sano come un pesce. Mi hai detto che leggi il giornale senza occhiali. La tua vista è perfetta. Ecco il tuo certificato. Ma dimmi : è vero quello che si racconta che hai sbagliato un’anatra al volo in Tesina?”. “Sì è vero, dottore. Eh... l’emozione dottore, maledetta emozione. A dire il vero, dottore, sono rimasto sorpreso dal fatto che l’anatra, pur colpita, lo giuro ha perduto molte piume, ma ha proseguito il suo volo. Sto pensando ad un sabotaggio. Ho un sospetto: Pietro Lunardi mi confeziona le cartucce. Miscela la polvere da sparo con la semola!”». Mentre parlava, dava qualche occhiata, di sottecchi a mio papà, per osservarne la reazione, che non tardò. I due si guardarono in faccia, un attimo di silenzio, poi scoppiarono in una fragorosa risata.

Ma il massimo della notorietà Gnagne lo ottenne con una lepre. Una mattina di fine estate, con Leo a fianco, il fucile in spalla, si incamminò verso l’ansa del Ghebbo nella golena (la maredana) del Tesina. Leo incominciò a dar segni di irrequietezza, tipico del cane che è sulle tracce della preda. Gnagne lo seguì con lo sguardo per non perderlo di vista.

Improvvisamente Leo si fermò, si irrigidì con una zampa anteriore sollevata. Sembrava una statua. Gnagne si avvicinò: a due passi, accovacciata nell’erba, una grossa lepre. Leo non si mosse, aspettava il comando del padrone per attaccare.

Gnagne in punta di piedi, stringendo il fucile, affiancò il cane. La lepre immobile, con il pelo arruffato, fissava ora il cane, ora il suo padrone, pronta a lanciarsi fuori dal covo. Gnagne alla lepre: “Non ti sparo - disse - sei troppo vicina. Non è giusto. Mi fai pena. Ti voglio dare una possibilità di salvarti”. Allungò un calcio alla lepre, senza sfiorarla. L’animale fece un balzo fulmineo, poi un altro e un altro ancora, zigzagando. Gnagne , con la prontezza e la freddezza di un cacciatore esperto, mirò e….silenzio! Eppure aveva in canna due cartucce. Gnagne, visibilmente imbarazzato, si esibì in un rosario di frasi irripetibili. Nella foga, non aveva caricato i percussori esterni della ‘s-ciopa’. Guardò la lepre ormai lontana nell’erba alta. “Va’ pure, sei libera. Puoi andare a ringraziare la Madonna di Monte Berico. Io invece vado da Nicola a bere un’ombra” .“Te si stà furba e mi mona.”

(da biblioteca di Quinto)

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