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L’AUTORE. Giovanni Marchioro, segnalazione della biblioteca di Schio

Dietro la serranda

Giovanni Marchioro


La città a ferragosto taceva, vuota. Un’aria secca aleggiava per le strade, espandendosi e ritirandosi, occupando gli anfratti abbandonati dalla moltitudine lontana. Qui e là caseggiati alti e sghembi lasciavano cadere squame di malta polverosa; fontanelle prosciugate bucavano i pavimenti asciutti delle piazze. Nella prima periferia attorno al centro, un singolo palazzone giaceva tra pozze di bitume e pratucci spelacchiati. Pareva il teschio di un leone ucciso dal crudele sole africano: una scatola d’ossa ciclopiche, sbiancate dalla luce verticale, i fori delle finestre ormai simili a orbite infestate da ragni del deserto.
Un solo rumore bastò a spezzare la quiete pesante del termitaio urbano. Era una vecchia Alfa nera, i finestrini abbassati e la marmitta che ballava. Sbucata dal nulla, ronzava come un calabrone in cerca di prede sopra un campo riarso. Una sterzata improvvisa fece fischiare i copertoni lisci e portò la vettura solitaria di fronte al palazzo spopolato, dove il motore si spense. Cric. Da dietro la portiera scostata si alzò un uomo di buona statura, dritto sulle gambe. Girato di schiena, fece due passi sull’erba giallastra, aprendo il baule posteriore. I suoi gesti erano misurati. Una sacca di tela verde sporco fece la sua comparsa sotto l’ombra effimera del portello. Rapido, l’uomo mise tutto a tracolla e si allontanò dall’auto. Una macchia di sudore scendeva lungo la schiena della camicia azzurra, arrotolata alle maniche; la cravatta beige andava su e giù come un pendolo. La ghiaia del cortile scricchiolava sotto le scarpe di pelle lucida che iniziavano a screpolarsi ai lati, mentre i piedi fendevano il riverbero di calore che emanava dal suolo rovente.
L’uomo si avvicinò all’edificio, un casermone popolare reduce delle espansioni urbanistiche del passato. Tirato su in cemento sottile e friabile, pareva un castello di carte logore, impilate, per scommessa, dalle mani colossali di un gigante ubriaco. Spostandosi sull’erba morta Camicia aggirò la facciata e voltò l’angolo, dove salì sullo stretto marciapiede in cemento. Le antenne satellitari, inchiodate alle terrazze, lo sovrastavano come tanti avvoltoi metallici. In pochi passi si infilò sotto al portico che dava nei garage; fece scorrere lo sguardo sui portoni di lamiera arancione maculati di ruggine, una goccia di sudore che gli colava dalla tempia, poi scelse il secondo da destra. Le suole calcarono la superficie liscia, echeggiando tra le colonne instabili, e fu davanti a una serranda malconcia. Si sfilò la cinghia dalle spalle e lasciò cadere a terra il sacco verde.
Lanciò uno sguardo all’indietro. Con il piede sinistro colpì di punta la saracinesca, che emise un mugolio sferragliante. Una nuvola di ruggine piovve lieve sulle scarpe di pelle crepata. Da dietro il metallo un oggetto in vetro cadde rumorosamente e si infranse. Camicia si passò la lingua sulle labbra secche.
«Apri, sono io».
Dentro, una sedia grattò le piastrelle. Poi dei passi calpestarono i cocci di vetro, che si sbriciolarono cedendo. Una mano pesante strattonò una cinghia, e la serranda mal oliata vibrò per due volte. Infine si alzò a singhiozzi. Camicia si trovò faccia a faccia con una sigaretta accesa. Sigaretta parlò.
«Sei qui insomma? Non si può lavorare con questo caldo. A ferragosto, come le bestie. Hai le chiavi?».
Camicia gli tese le chiavi dell’Alfa. Qualcosa si mosse in fondo al garage, illuminato a stento da una plafoniera.
«Io vado allora. Buona settimana».
«Sì, qui faccio io. Goditi il mare. Ah, e salutami tua moglie».
Sigaretta uscì senza dire altro, lasciò l’ombra immergendosi in un bagno di luce bianca. Camicia raccolse la sacca, varcò la soglia e si fece ripiombare la serranda alle spalle. Girò la seggiola, sedette, aprì il borsone verde sporco. Estrasse la pistola e la posò sul tavolo. I quieti sussurri nel fondo del garage cessarono immediatamente. Piccole mani si rimisero a cucire nella penombra. Fuori, il motore dell’Alfa andò in moto con un ringhio. Tutti quanti vanno in vacanza.

(da biblioteca di Schio)

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