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L'intervista

Antonio Chemello: «Non sono un "bacalà" ma questo piatto è stata la mia fortuna»

Lo chef di Sandrigo si racconta al GdV: «In cucina presto con i miei genitori, ho studiato con Cracco e Perbellini. Poi lutti dolorosi, le avventure alle Lofoten e l'eredità della Pro Sandrigo»
Lo chef Antonio Chemello
Lo chef Antonio Chemello
Lo chef Antonio Chemello
Lo chef Antonio Chemello

L'appuntamento è per le dieci del mattino, arrivo a Sandrigo e Antonio Chemello è già nel piazzale del ristorante, che conduce assieme al figlio Marco. È in piedi, appoggiato alla enorme scultura in legno, che rappresenta uno stoccafisso, e che dà il benvenuto agli ospiti del locale. Appena rientrato da una pedalata indossa ancora l'abbigliamento da ciclista, perché la bici, così come la racchetta, il pallone e gli sci, rappresentano gli attrezzi delle sue passioni sportive. Nemmeno il tempo di accomodarsi e, grazie al fido Pino, spunta una bottiglia di bianco del Friuli.

Antonio Chemello, in arte Palmerino, ha innato il dono della ospitalità. Lo conosco da anni e non potrei immaginarlo in un ruolo diverso che quello del ristoratore. Da quando è nato vive tra fornelli e pentole, tavoli e tovaglie. La sua famiglia gestiva sin dagli anni 50 un'osteria in centro a Sandrigo, oggi quel locale non esiste più, ma in lui è ancora vivo il ricordo dei Tre Garofani, dove sua nonna Luigia dirigeva, la brigata costituita da suo padre e dai suoi sette fratelli che, una volta liberi dal loro vero lavoro, si industriavano tra cucina e sala.

«Mia nonna - dice - era il motore di quella trattoria, il nonno Antonio in quegli anni girava i paesi a vendere formaggi. Mio padre Palmerino, allora infermiere, era, tra i fratelli, quello che aveva più passione per la cucina, così, una volta conclusa l'esperienza dei Tre Garofani, decise di lasciare le corsie dell'ospedale per cimentarsi nella ristorazione. Al suo fianco mia mamma Jole, anche lei, in origine, occupata a prendersi cura dei malati, così come oggi fa mia sorella Maria Luigia. Acquistato per poche lire il terreno, nella zona più depressa del paese, e costruito una sorta di piccolo "cubo", cominciò nel 1962 l'avventura della trattoria da Palmerino. I primi tempi il locale accolse gli ospiti con alle finestre il nylon al posto dei vetri e senza le mattonelle del pavimento».

È vero che il sogno di tuo papà era che intraprendessi la carriera sacerdotale?
È proprio così. Finita la quinta elementare, mi spedì a Tonezza ad una sorta di corso preparatorio all'ingresso in seminario. Dopo una settimana di "passione" riuscii a telefonare a casa e, parlando con mia mamma, minacciai che, se non fossero venuti a prendermi, sarei tornato a Sandrigo a piedi. Il mio percorso vocazionale terminò in quel momento. Dopo le scuole medie mi iscrissi all'istituto alberghiero. Che levatacce! Partivo alle 5 da casa. Prima la corriera, poi il trenino fino a Valdagno quindi ancora pullman per Recoaro. Ogni pomeriggio stessa avventura per tornare. Frequentai insieme a Perbellini e Cracco, non ricordo chi avesse i voti migliori. Appena il tempo di terminare i tre anni di corso e dovetti "diventare grande". Mio padre si ammalò e fu gioco forza affiancare mia mamma in cucina, non ero ancora maggiorenne. Quando lui morì avevo solo 25 anni, ero sposato e avevo già avuto Marco. Una parte di vita con l'acceleratore sempre a tavoletta!

Quella di tuo padre non è l'unica perdita dolorosa che ti ha segnato profondamente.
Nel 2003 sono rimasto vedovo. Cristina, mia moglie, è morta in seguito ad un incidente stradale, ancora oggi inspiegabile nella dinamica, accaduto a Polegge. Aveva 38 anni. Ci eravamo conosciuti sul famoso trenino delle Ftv, frequentava anche lei l'alberghiero a Recoaro. Sposati giovani, io 20 anni lei uno in meno. Era l'anima della trattoria. Non dimenticherò mai la notte di quell'8 aprile. Cristina era uscita a cena con le amiche a Vicenza. Rientrato a casa, mi era parso strano non trovarla, lì per lì non mi preoccupai, andai a dormire. Mi sveglia verso l'una, non vedendola ancora, cominciò a salirmi l'ansia. Mi alzai e, nel raggiungere la cucina, scorsi una luce intermittente illuminare il buio della notte. Vidi entrare nel piazzale un'auto della polizia. L'agente, sceso dalla macchina, teneva in mano una carta d'identità. Era quella di Cristina. Capii che doveva essere successo qualcosa di grave. Poco dopo mi crollò il mondo addosso. La tragedia nella tragedia fu dirlo a nostro figlio. Ricordo distintamente le parole di Marco: "Perché non è venuta mamma a svegliarmi". Scoppiammo a piangere, non servì aggiungere altro. Per mesi mi sentii svuotato, solo, perso! Gli anni a seguire sono stati molto complicati, mi sentivo confuso, inadeguato sia nelle vesti di cuoco che di padre. È stato un periodo molto difficile anche per Marco. Diplomatosi all'alberghiero, volle iscriversi all'università, riuscendo a laurearsi. Pensavo che non avremmo mai potuto lavorare uno a fianco all'altro. Invece, superati diversi dubbi, decise di mettersi in gioco nel progetto Palmerino. Una grande soddisfazione, più recentemente, Marco mi ha fatto un altro straordinario regalo, facendomi diventare nonno di Mattia.

Antonio chiudiamo il cassetto dei ricordi e accendiamo i fornelli. Oggi sei riconosciuto come una sorta di portabandiera del bacalà alla vicentina, ricordi il tuo primo incontro con lo stoccafisso?
Era il il 1989, ricevetti una telefonata da Michele Benetazzo, grande amico di mio papà, straordinario sognatore e organizzatore, anzi inventore di eventi. L'avvocato stava preparando la prima edizione della festa e mi chiese di preparare 500 porzioni di bacalà. Non sapevo da dove cominciare, ma, orgoglioso, non volli dirgli di no. In aiuto arrivò mamma Jole.

Quello "alla vicentina" è il miglior piatto con lo stoccafisso?
Quello della nostra tradizione è il re dei piatti in cui il "cod fish" è protagonista, ma ci sono altre proposte che esaltano il pesce bastone. Invito a provare la ricetta alla roveretana con le patate e, ancora più ruffiana, quella del mantecato alla veneziana. Noi utilizziamo il merluzzo essiccato delle Lofoten, prodotto IGP riconosciuto dalla Comunità Europea, mentre altri piatti, altrettanto eccellenti, sono a base di baccalà dissalato, a partire da quello alla livornese con il pomodoro.

È vero che il segreto del bacalà alla vicentina è la battitura?
I segreti sono diversi. Prima di tutto utilizzare un merluzzo, pescato all'amo e non con la rete, che arrivi da Rost. Lì i norvegesi li mettono a seccare per almeno 3-4 mesi, appesi nei fishkehiel, confidando nel vento costante di quell'isola, dove non ci sono montagne. Importante è poi la battitura, un'arte che fino a qualche tempo fa si faceva utilizzando una "socca" di legno e uno speciale martello. Bisogna saperlo trattare, ammorbidendolo senza sfaldarlo. Lo si batte solo in Veneto, in tutte le altre parti lo si lascia solo in ammollo per molti più giorni di quanto non facciamo noi. Il resto lo fa il cuoco.

Non si assomigliano, ma maiale e stoccafisso hanno qualcosa in comune.
Certo, perché di ogni esemplare non si butta via nulla. Le teste finiscono in Nigeria, dove è l'ingrediente principale di una zuppa tipica. Lingua, guance e trippa sono bocconi prelibati e non dimentichiamo le proprietà dell'olio di merluzzo.

Antonio, da qualche anno sei ambasciatore dello stoccafisso di Norvegia in Italia e sei anche componente della Confraternita del Bacalà.
Due significativi riconoscimenti. Sono un "mantellato" dal 2014, ma già sette anni prima ero entrato a far parte del direttivo della Confraternita, insostituibile scrigno di cultura e depositaria della tradizione gastronomica. Proprio per dare lustro a questa associazione nel 2007 mi sono "inventato" un viaggio che mi ha cambiato la vita. Non stavo vivendo periodo facile, stavo bene solo quando mollavo la cima e guadagnavo il mare aperto con la mia barca a vela. Una sera, dopo una sincera bevuta, chiacchierando con l'amico Furio Bolgarelli, skipper di lungo corso, gli proposi di navigare da Venezia alle Lofoten, seguendo la rotta che portò là, dopo un naufragio, Pietro Querini e i suoi pochi marinai superstiti. Furio mi prese sul serio e così il 5 maggio, benedetti con un baccalà da Luca Zaia, lasciammo gli ormeggi da San Marco. Navigammo, insieme a Arnaldo Pozzato e Gigi Pomi, per quasi due mesi per 3650 miglia nautiche. Una esperienza indimenticabile. Cinque anni dopo, il presidente Luciano Righi, volendo celebrare i 25 anni della Confraternita, mi chiese di ripetere l'impresa. Gli proposi di percorrere il viaggio di ritorno del Querini, quello che gli permise di portare lo stoccafisso dalle nostre parti. Grazie agli studi di Otello Fabris individuammo il tragitto intrapreso dal grande esploratore. Così a bordo della mitica 500 Fiat color giallo confraternita, e tre camper di supporto, in compagnia di Fausto Fabris, Carlo Pepe, Ennio Dall'Amico e Stefania Zilio, riuscimmo a percorrere, tra andata e ritorno, i 10mila chilometri che stanno tra Rost e Venezia. Due avventure che supportano il progetto della Via Querinissima che confidiamo possa ottenere dal Consiglio d'Europa il riconoscimento di itinerario culturale e gastronomico.

Per non farti mancare nulla, sei anche il presidente della Pro Sandrigo.
Il mio coinvolgimento nella Pro è merito o colpa sempre dell'avvocato Benetazzo. Ricordo quanto dovette insistere perché mi decidessi ad impegnarmi nell'organizzazione, che oggi mi appassiona. Peraltro grazie alla Pro ho conosciuto Erika, l'anima dell'associazione, che è diventata, insieme al piccolo Tommaso, la compagna del secondo tempo della mia vita. La Pro Sandrigo è nota, anzi direi famosa, per la festa del Bacalà alla vicentina. Nel pre covid siamo arrivati a preparare 100 quintali di bacalà e servire 50 mila persone. Quest'anno la kermesse gastronomica si sposta al parco Tremila, confidiamo che sia una edizione record. Ma sono molte altre le iniziative e gli eventi che la Pro organizza ogni anno: dai Disegni sull'asfalto per i bambini delle scuole alla Caccia all'uovo, dal Carnevale al Premio Basilica Palladiana, che nel 2024 festeggerà i 60 anni, e che premierà i due veneti illustri del 2023 a villa Sesso Schiavo la sera dell'8 giugno.

Qualche anno fa sei anche diventato una star della televisione.
Ma quale star! Ho vinto la edizione 2012 della Prova del Cuoco grazie all'entusiasmo e all'affetto dei vicentini che mi hanno votato. Per me è stata una esperienza straordinaria perché vissuta fianco a fianco con mio figlio Marco e col supporto di mia mamma Jole, che nelle cucine del Palmerino ha lavorato fino a 88 anni, e del grande amico Mario Baratto.

Eri diventato il beniamino della presentatrice Antonella Clerici.
Diciamo che con me e Marco si è sempre divertita, perché siamo stati noi stessi, genuini, spontanei, veri e orgogliosi di portare ricette del nostro territorio. Abbiamo partecipato a 8 puntate, rendendo protagonisti nei piatti ben 52 prodotti della tradizione vicentina. Siamo perfino riusciti ad "inventarne" uno: i "pomi di Ancignano", una mela che cresce in un frutteto del paese dove ho trascorso l'adolescenza. Come non celebrarlo! In finale abbiamo vinto con il 76%, grazie agli sms dei vicentini, sulle colleghe di un ristorante che rappresentava la Liguria.

Sei un grande appassionato di sport, e sei perfino riuscito a fare un gol al Menti. Per un grande tifoso biancorosso non è roba da poco.
Indimenticabile. Fresco vincitore della "Prova del Cuoco" venni convocato da Giulio Savoini per una partita contro la nazionale cantanti. Non posso dimenticare quel cross partito dal piede di Schwoch. Mi ritrovai solo soletto, dimenticato o ignorato dai difensori, davanti alla porta sotto la mitica curva sud. Controllo e tiro. Quando vidi il pallone finire infondo alla rete mi inginocchiai e piansi.

L'intervista o non può finire senza la ricetta e il segreto per il bacalà alla vicentina made in Palmerino...
Prima di tutto stoccafisso delle Lofoten, cipolla, sarda, olio, farina bianca, grana, sale, pepe e il segreto: tanta passione.

Non ci resta che verificare se, il suo bacalà, preparato insieme alla fedele cuoca Manuela e a Davide, servito da Marina, è veramente il re dei piatti di pesce bastone: sì, vale la corona.

Luca Ancetti