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LE TRIPPE

La variante vicentina
contempla il brodo
e guarda ai lombardi

Un piatto di trippe in umido
Un piatto di trippe in umido
Un piatto di trippe in umido
Un piatto di trippe in umido

Natale è vicino: parliamo di pandoro, di panettone, di mandorlato? No: di trippe. Non saranno molti i commensali che alla cena della vigilia o al pranzo del 25 dicembre potranno degustare un piatto di trippe, la lunga preparazione necessaria e una certa variazione dei gusti l’hanno ormai reso raro; per quanto gli estimatori delle frattaglie e gli appassionati dei sapori d’un tempo non lo disdegnino affatto anche nelle festività natalizie. Una volta era più comune, anche perché il periodo è quello in cui se faseva su el mas’cio, quindi si potevano avere a disposizione frattaglie fresche e gustose, anche se le trippe migliori erano considerate quelle dei bovini. Che sono poi quelle universalmente conosciute, cucinate in tantissimi modi non solamente nelle regioni italiane. L’etimologia del nome è incerta, pare comunque dell’Europa del nord, forse dal gaelico tarp, cioè mucchio, o dal tedesco stripen, striscio. Si tratta in ogni caso dello stomaco dei bovini o dei suini, che va lavato molto bene in acqua quasi bollente (con aceto o limone) e raschiato con un coltello, togliendo la membrana. La preparazione, spiegata nel dettaglio in “L’alimentazione nella tradizione vicentina” del Gruppo di ricerca sulla civiltà rurale, continua tagliando le trippe in due o tre pezzi, quindi bollendole in acqua leggermente salata per un’ora. “Una volta scolate, si tagliano a listarelle di un centimetro circa e si mettono a cucinare in un soffritto formato da olio, burro, lardo, nei quali sono stati rosolati cipolla, sedano e carote finemente affettati”. Si possono anche aggiungere rosmarino, salvia, aglio, pepe, chiodi di garofano, persino cannella. Finito? Non proprio, perché la variante alla vicentina contempla il brodo, nel quale vanno cotte per altre due o tre ore. Se con il brodo si scioglie anche la conserva di pomodoro, si ottiene la minestre de tripe; se invece vi si stemperano due cucchiai di farina bianca, si ha la supa de tripe. Il coronamento, in entrambi i casi, avviene quando i piatti di minestra o zuppa vengono generosamente cosparsi di formaggio grattugiato. Luigi Meneghello, in “Maredè, maredè...” (Rizzoli, 1991), cita la frase Supa de tripe co’l so mato formaio, come esempio di accostamento appropriato (parlando in realtà degli usi dialettali dell’aggettivo mato). Ancora il Gruppo di ricerca riporta le ulteriori, curiose varianti che erano state messe a punto, e apprezzate, da un’osteria tipica di Sandrigo, che ai clienti proponeva la mista: in pratica, era la solita supa de tripe, ma quando l’avventore ne aveva mangiata metà, si aggiungeva il brodo di un passato di verdura. Se nello stesso procedimento, invece del passato di verdura, si aggiungeva il minestrone, si otteneva la busèca. Che è un termine insolito per il Vicentino, ma che diventa comprensibilissimo se si guarda alla Lombardia: la busecca è la trippa alla milanese, tipica peraltro della vigilia di Natale, che prevede fagioli, sedano e carote, come il minestrone, appunto. Forse un viaggio a Milano di quell’oste di Sandrigo era diventato fonte di ispirazione. • © RIPRODUZIONE RISERVATA