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L’OCA DI SAN MARTINO

La storia del vescovo
si lega alla chiusura
dell’annata agraria

Un esemplare d’oca
Un esemplare d’oca
Un esemplare d’oca
Un esemplare d’oca

Secondo qualcuno veniva dietro soltanto al maiale quanto a importanza, nelle fattorie d’un tempo, perché anche dell’oca non si buttava via niente, o quasi: trovavano impiego le piume, le penne, il becco e le zampe (questi ultimi per la gelatina), oltre alle uova, al grasso, alla carne, e naturalmente al fegato. La si celebra ancora oggi, in molti modi e molte manifestazioni, compresa la rassegna “Oca e Marzemin” che in questi giorni investe i ristoratori di Marostica e del Bassanese, con puntate ad Asolo. Rassegna che prende spunto dall’accostamento tradizionale, in autunno, tra la carne d’oca e il vino novello. Con una data precisa di riferimento: l’11 novembre, giorno di San Martino, nonché giorno in cui nelle campagne si facevano i conti fra proprietari, fittavoli e mezzadri. Era il giorno delle scadenze dei contratti, perché i lavori nei campi erano conclusi e non era arrivato l’inverno. E se il contratto non veniva rinnovato, bisognava andarsene: per questo fare San Martìn è sinonimo di traslocare. Si diceva dell’oca. La spiegazione più prosaica (perché proprio l’oca sulle tavole all’11 novembre?) rinvia al fatto che quelle selvatiche in questo periodo sono in migrazione, e quindi più facili da cacciare. Quella più romantica tira in ballo Martino, il monaco che nel 371 fu eletto, per acclamazione, vescovo di Tours. Lui non voleva saperne, così si rifugiò in campagna. Ma lo starnazzare delle oche ne rivelò il nascondiglio a chi lo stava cercando per riportarlo in città. Tuttavia, la presenza dell’oca potrebbe essere anche legata agli antichi culti pagani dei Celti, per i quali le oche sacre accompagnavano i defunti nell’aldilà. E forse a questo retaggio si deve il nome del gioco dell’oca, dove il giocatore viene, in un certo senso, accompagnato in un viaggio che lo porta alla redenzione. Come ricorda Otello Fabris del Centro di documentazione folenghiana, erano ben altri e più cruenti gli antichi giochi con protagonista l’oca. A Venezia la si appendeva per le zampe a un ponte: bisognava tuffarsi e afferrarla per il collo per assicurarsene il possesso. Una variante di Castel Tesino la vedeva appesa a una corda tesa: i giocatori, in piedi sulla groppa di un cavallo, dovevano riuscire ad afferrarla. Molto meno violento il gioco dell’oca da tavolo, nel quale ci si potrà cimentare dopo aver degustato l’ottima carne del volatile, accompagnata da un calice di rosso, e mangiando qualche castagna arrosto. Senza dimenticare le tecniche di conservazione in ónto, che prevedevano l’uso del grasso stesso dell’oca, o meglio dell’òco (abbondante dopo che l’òco era stato incoconà, nutrito a forza), per ricoprirne la carne disposta nella pegnata de tèra. Piatto da intenditori erano i bìgoli co l’òca: nel brodo fatto con un pezzo d’oca in ónto, aggiungendo fagioli e patate, si cuocevano i bìgoli spezzettati, come una pastina da minestra. I buongustai erano, e sono, certi del perdono della mite d’oca, per la quale Teofilo Folengo, alias Merlin Cocai, ricorda ancora Fabris, aveva immaginato un aldilà speciale: il paradisum ocharum. • © RIPRODUZIONE RISERVATA