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Il caso

Le parole disperate di Donatela. E l’appello degli amici: «Il futuro si può ricostruire»

Compagne e conoscenti della giovane che si è uccisa in cella a Verona chiedono l’intervento del ministro
Donatela e la sua lettera
Donatela e la sua lettera
Donatela e la sua lettera
Donatela e la sua lettera

Il pezzo di carta bianca, la penna che scorre veloce e gli ultimi pensieri che trovano posto riga dopo riga. Una bella grafia, ampia, che pian piano diventa più densa. Lo spazio sta per finire, ma ci sono tante, troppe cose da dire. Sono le ultime. Poi, non c’è più tempo.

La protagonista

Il lascito di Donatela Hodo, la ragazza di 27 anni che la notte tra il primo e il 2 agosto scorso si è tolta la vita nella sua cella del carcere di Montorio (Verona), è affidato ad un foglio. Ma da quel tragico giorno, in piena estate, era nato anche Sbarre di zucchero, il gruppo di amiche e compagne di cella di Donatela che in questi giorni hanno scritto al nuovo ministro della giustizia, Carlo Nordio, perché accenda un faro sulla situazione che molte donne vivono in carcere. Perché la sofferenza che provò Donatela è un segnale troppo forte per poter essere ignorato. Una delegazione di Sbarre di zucchero, nella mail inviata a Nordio, inoltre, chiede formalmente un incontro con il neo ministro. Tutto parte e ritorna a quel foglio. Non c’è, purtroppo, alternativa. Le prime parole sono scritte con lettere ampie. Ferme, almeno in apparenza.

Parole e sentimenti

Dietro invece nascondono un malessere devastante. Ma è anche il segno che probabilmente quelle erano frasi pensate, scritte qualche giorno prima. «Leo amore mio, mi dispiace. Sei la cosa più bella che mi poteva accadere e per la prima volta in vita mia penso e so cosa vuol dire amare qualcuno». Poi l’addio al fidanzato prosegue con le paure più grandi di Donatela, con i fantasmi che l’hanno inseguita e che non la lasciavano in pace. Fino a farle prendere la decisione più tragica possibile, togliersi la vita. «Ho paura di tutto, di perderti e non lo sopporterei mai. Perdonami amore mio, sii forte. Ti amo», così si conclude. C’è infine un post scriptum, un ps, lungo tanto quanto quello che forse doveva essere l’unico messaggio da lasciare. È un pensiero alla madre, «ti voglio bene», e un passaggio straziante, intimo, per il padre in cui spiega di averlo perdonato. Per cosa lo sanno solo loro due. Proprio il padre, qualche giorno dopo il suicidio di Donatela, in un’intervista a L’Arena, aveva espresso tutto il suo dolore chiedendosi anche se mai si sarebbe potuta evitare quella fine. Ed è anche per avere risposte, per non rivivere lo stessa tragedia che Sbarre di zucchero ha scritto la lettera a Nordio spiegando di «sentire l’urgenza di tentare di prevenire altri suicidi e di raccontare la realtà di sofferenza delle donne in carcere per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni».

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Le cifre

I numeri, a livello nazionale, sono impietosi. Da inizio anno, settantacinque persone si sono tolte la vita in carcere. «Il messaggio che cerchiamo di trasmettere», prosegue la lettera di Sbarre di zucchero, «è che la detenzione non è un limite insuperabile ma è possibile riprendere in mano la propria vita, ricostruire un futuro, dimostrare di essere delle risorse preziose per la collettività». «Confidiamo in lei (il ministro Nordio, ndr) per un miglioramento dell’esecuzione penale attuale; i detenuti si sentono abbandonati e privati anche della speranza. Confidiamo in lei perché aumentino nel concreto le possibilità del lavoro, sia all’interno delle mura del carcere sia all’esterno. Confidiamo in lei per un aumento degli operatori, ossia degli educatori, degli psicologi e del personale di polizia penitenziaria». La lettera, inoltre, prende in considerazione anche i quattro suicidi proprio fra il personale di polizia penitenziaria: «Purtroppo - si legge - anche loro sono esposti a condizioni di lavoro tutt’altro che ideali e a molte situazioni drammatiche e difficili da affrontare».

Speranza

Dopo aver chiesto l’incontro con il ministro la lettera si chiude così: «Crediamo che nessun uomo sia irrimediabile, che valga sempre la pena di dare una possibilità concreta di reinserimento a chi ha sbagliato ma dimostra di voler cambiare, e che anche chi sta scontando una giusta pena vada però trattato nel rispetto dei diritti umani fondamentali».

Nicolò Vincenzi

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