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La cavalcata europea

Vicenza e la Coppa delle Coppe: dal Legia allo Shakhtar. Ma la finale è un rimpianto

A Londra, il 16 aprile del 1998, piove. È una serata di pallida primavera, e a Stamford Bridge si è giocata la semifinale di Coppa tra Chelsea e Vicenza. I 35 mila presenti allo stadio hanno appena udito il triplice fischio di monsieur Batta, e in mezzo a loro quelli che arrivano dall’Italia stanno masticando amaro. Quel suono acuto, infatti, non solo decreta la sconfitta dei biancorossi, ma basta a risvegliarli in un attimo dall’atmosfera sognante in cui la città del Palladio era precipitata da un po’. Un vento freddo sferza le lacrime di Pasquale Luiso, rannicchiato a centrocampo; e poi Vialli, che con una carezza sui capelli tenta sportivamente di consolare l’inconsolabile. Ormai è ovvio: l’avventura del Vicenza in Coppa delle Coppe si è incagliata lungo il Tamigi, ad una rete dalla finale. In fondo il tonfo contro il Chelsea è quello di un ottovolante che senza preavviso ha frenato la sua corsa: al momento di salire, si sa bene che presto o tardi toccherà scendere, ma è nel rapimento della giostra che poi tutti se ne dimenticano. Da qui il vero rammarico. Eppure, come per tutte le storie che meritano di essere raccontate dalla fine, anche in questa non è solo il finale che conta.

Il biglietto per questo interrail nel calcio internazionale lo si stacca l’anno prima, nel momento stesso in cui capitan Lopez alza al cielo la Coppa Italia. Per quanto meritato, è per molti un regalo da godersi fintantoché si riesce a stare a bordo, spinti dall’entusiasmo delle irripetibili novità. Tuttavia la rosa che affila i tacchetti per questa campagna europea non intende fare sconti a nessuno, e i primi a rendersene conto sono i polacchi del Legia Varsavia, estratti dall’urna per i sedicesimi. L’esordio avviene il 18 settembre ’97, e nonostante l’emozione della prima volta, bastano due colpi di Luiso e Ambrosetti per mandare KO gli avversari, ai quali non resta che tentare il riscatto tra le mura amiche il successivo 2 ottobre. Quella sera in Polonia i padroni di casa segnano l’1 a 0 che riapre il discorso qualificazione, ma all’86º un siluro di Zauli chiude i giochi, esorcizzando il fantasma del Dukla Praga, che una ventina d’anni prima aveva fermato il Lanerossi in Coppa Uefa. Riuscendo dunque laddove anche Gibì Fabbri aveva fallito, si va agli ottavi.

Il secondo atto di quest’avventura si svolge a Donetsk, in Ucraina. Il 23 ottobre la Banda Guidolin scende in campo contro lo Shakhtar, in un paesaggio post-sovietico desolante e tetro. Squadra e giornalisti vengono ospitati in hotel, ma ci si porta tutto dall’Italia, cuoco e formaggio compresi, assieme ad una manciata di tifosi arrivati nel Donbass per assistere al match. In quell’occasione lo stadio è gremito di militari in divisa, sotto gli occhi dei quali Luiso segna uno dei gol più rapidi nella storia del torneo, con i telespettatori che ancora vedono scorrere sullo schermo le formazioni in cirillico, quando il telecronista segnala la palla insaccata dall’ormai ribattezzato Re di Coppa. Finirà 3 a 1, con tripletta di un incontenibile Pasquale, che ancora non lo sa, ma a maggio verrà coronato capocannoniere della competizione grazie alle sue 8 reti. Con questo risultato in pugno, comunque, il ritorno è in discesa: il 6 novembre al Menti finisce 2 a 1 per i veneti, quarti di finale in saccoccia, e altro giro, altra corsa.

Il 5 marzo ’98 il rullino di marcia segna Kerkrade, Paesi Bassi, dove ad attendere Di Carlo e compagni c’è il Roda JC. All’andata finisce 1 a 4 per i ragazzi in casacca “Pal Zileri”, che fanno il bello e il cattivo tempo nella trequarti giallonera, mentre al ritorno il Vicenza serve agli olandesi una “manita” con tanto di gol da fuori area di Firmani e rovesciata da copertina di Mendez. L’entusiasmo ribolle, un’interminabile ola riveste lo stadio come febbrile pelle d’oca, e a fine gara persino gli avversari vengono chiamati con simpatia a prendersi gli applausi della curva sud.

Ecco allora che la storia chiama in scena il Chelsea di Zola. Stadio Menti, 2 aprile. Se si tiene presente che la semifinale parallela è tra il Lokomotiv Mosca e l’inconsistente Stoccarda, lo scontro tra le prime due compagini sa di finale anticipata. La partita è perfetta, i vicentini signoreggiano, e al 16º un lampo di genio di Zauli sigilla una rete importantissima. L’urlo delle gradinate è come un tuono tra le tenebre, la mente già veleggia verso la finale, e chissà, magari poi la Supercoppa contro il Real Madrid… Quel pubblico in delirio è «la nostra gente», come la chiama Guidolin, che a fine gara, con la sua classica compostezza, ricorda che c’è ancora un ritorno da giocare. E però «era importante andare a Londra con il sogno ancora nel cassetto». La resa dei conti avviene allora a Stamford Bridge. E si torna all’inizio, a quello che sappiamo. Prima al gol di Luiso che fa pensare che la gloria sia ad un passo. E poi a quando tutto precipita: una rete ingiustamente annullata, le mirabolanti parate di De Goeij, una serie di errori difensivi nel momento più sbagliato per sbagliare; e gli inglesi che ne fanno tre, portando a casa l’intera posta in palio. Il finale è drammatico. E non perché non si possa dire di essere arrivati fino a lì, ma proprio perché ad un passo dall’alloro, la fradicia notte d’Albione fagocita ogni speranza, ricordando che gli eroi pagano sempre in care valute d’amarezza l’aver tentato di saccheggiare l’Olimpo.

E così la cavalcata europea della Nobile Provinciale si rivela quella sera il sovrappiù concesso da un fato che dà e che toglie, secondo i propri capricci. Chi a fine gara rientra a testa bassa negli spogliatoi, sa bene che nessun almanacco registrerà quell’impresa mancata; nella finale di Stoccolma sarà un altro il nome inciso sull’ambito trofeo d’argento. Solo nella memoria di chi ha esultato e pianto per quel Vicenza, rimarrà quel nome. Eppure per costoro è già tantissimo. Perché non si può non amare chi ti ha fatto viaggiare nel sogno; chi, insomma, è arrivato a farti credere che il più improbabile dei pronostici dell’inizio – quello di guardare l’Europa dall’alto – fosse il più vicino a realizzarsi.