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DON CAMILLO
IMPRENDITORE

Mons.Camillo Faresin (1914-2003), nato a Maragnole di Breganze,  vescovo di Guiratinga  per 37 anniL’opera salesiana São Gonçalo  a Cujabà, fondata da FaresinL’ospedale di S. Maria Bertilla inaugurato nel 1970
Mons.Camillo Faresin (1914-2003), nato a Maragnole di Breganze, vescovo di Guiratinga per 37 anniL’opera salesiana São Gonçalo a Cujabà, fondata da FaresinL’ospedale di S. Maria Bertilla inaugurato nel 1970
Mons.Camillo Faresin (1914-2003), nato a Maragnole di Breganze,  vescovo di Guiratinga  per 37 anniL’opera salesiana São Gonçalo  a Cujabà, fondata da FaresinL’ospedale di S. Maria Bertilla inaugurato nel 1970
Mons.Camillo Faresin (1914-2003), nato a Maragnole di Breganze, vescovo di Guiratinga per 37 anniL’opera salesiana São Gonçalo a Cujabà, fondata da FaresinL’ospedale di S. Maria Bertilla inaugurato nel 1970

La storia del vescovo imprenditore, un santo per tutti coloro, ebrei e indios in primis, che ha salvato, e che ha cambiato il volto del Mato Grosso, è emersa oggi nel 200° dalla nascita di San Giovanni Bosco. E quella storia, portata alla luce dall'associazione ”Equipe sans maison”, diventa una fiaba di Natale. Saranno presentati domani sera, a Breganze, paese di origine del protagonista, il libro e il documentario ”Mato Grosso senza confini. Sulle tracce di monsignor Camillo Faresin, vescovo salesiano fra i poveri dell'Amazzonia”: un viaggio nella vicenda di un prete vicentino di Maragnole, ma anche nelle contraddizioni stridenti di una terra ricca di fascino.

«C'è un personaggio - scrive Ario Gervasutti nella prefazione - che ha unito in sè la Fede e il genio imprenditoriale; l'assoluta devozione alla Parola di Dio e la totale dedizione alle capacità manageriali». Quel personaggio è mons. Faresin, classe 1914, che ha seguito la chiamata di Dio - al pari del fratello Cornelio - e si è fatto missionario salesiano per seguire le orme di don Bosco.Partito per la missione nel '34, rientrato in Italia nel 1940 e qui rimasto per l’entrata in guerrra dell’Italia, don Camillo a Roma salvò la vita a centinaia di ebrei nascondendoli e procurando loro documenti falsi. Finì anche in prigione, nel 1946 tornò in Brasuile, nel Mato Grosso. Claudio Tessarolo, Luciano Covolo, Massimo Belluzzo e Alessandro Mattielli, con il supporto della Fondazione mons. Camillo Faresin, hanno ripercorso il suo viaggio incontrando chi ha lavorato con il missionario vicentino, consacrato vescovo della diocesi di Guiratinga nel 1954, e le sue opere. In pochi anni, in villaggi in cui non c'era assolutamente nulla, costruì case, scuole, patronati, case di riposo, un ospedale, che fu per 35 anni il fiore all'occhiello della sanità di tutto lo Stato, consentendo le cure anche ai poveri. Per riuscirci, diede vita a due fabbriche di mattoni e piastrelle, che davano lavoro ai disoccupati. All'ospedale Santa Maria Bertilla, in onore della suora berica Boscardin, chiamò i migliori giovani medici brasiliani, grazie all'aiuto del professor Giovanni Baruffa, vicentino di Casoni di Mussolente; vi operavano le suore della Divina volontà di Bassano, con suor Narcisa Cadó. Chiamò a collaborare con le sue missioni, nei suoi 37 anni da vescovo, anche il volontario Bepi Corso, costruttore di chiese, che lasciò la famiglia in Italia per seguirlo. Al suo fianco ci fu sempre la diocesi di Vicenza, a partire dal vescovo Carlo Zinato.

Tutte queste attività mons. Faresin le seguì in prima persona, accanto alla pastorale e all'evangelizzazione di un popolo attirato da sette e animismo. Non solo la cittadinanza, ma anche le autorità locali seguirono gli sforzi del vescovo che avviava i cantieri confidando, e poi beneficiando, nella Provvidenza, oltre che sull'aiuto materiale degli ebrei romani che aveva salvato durante la guerra. Equipe sans maison ha incontrato e intervistato molti dei suoi collaboratori, a partire da don Giulio Boffi, che oggi dirige il collegio di Cujabà, capitale del Mato Grosso; ed hanno documentato anche lo stato di abbandono dell'ospedale, chiuso nel 2005 per volontà governativa due anni dopo che il suo ideatore e costruttore, dom Camillo come tutti lo chiamavano in Brasile dove era rimasto a vivere dopo il pensionamento nel 1991, aveva lasciato il suo popolo raggiungendo in cielo l'amato don Bosco.

Un messaggio forte, di fede vera, arriva da Alexander, capo indios della tribù degli xavantes. Gli indios negli anni Settanta erano minacciati non solo dalle autorità che volevano abbattere la foresta vergine dell'Amazzonia per avere terra da coltivare, ma anche dai garimpi, i cercatori di diamanti che radevano al suolo tutto quanto incontravano per dragare i fiumi alla ricerca di pietre preziose. Alexander e la sua tribù si rivolsero al vescovo, che li accolse e aprì loro anche le porte dell'ospedale, proteggendoli. Oggi vivono in un villaggio in pace, e il loro capo - battezzato come tutta la sua tribù dal vescovo, che fece conoscere agli indios Gesù Cristo - non esita a definirlo un santo. L'amore per gli ultimi del missionario vicentino, scrive Gervasutti, lo faceva camminare «sulla strada di Francesco già 50 anni prima che Jorge Bergoglio diventasse Papa». E oggi qual è il suo lascito? Lo chiarisce, nell'introduzione al libro (C&B edizioni, 160 pagine, 20 euro), Claudio Tessarolo: «Anche oggi si rinnovano nel suo nome i miracoli dell'amore... Era un impresario caritatevole, un esploratore dell'anima, un santo eroico».

Diego Neri

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