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Erbacce e degrado
La fine della favola
al Porto degli angeli

Quello che resta del sito denominato Porto degli Angeli ad Arcugnano. FOTO DI STEFANO MARUZZO
Quello che resta del sito denominato Porto degli Angeli ad Arcugnano. FOTO DI STEFANO MARUZZO
Quello che resta del sito denominato Porto degli Angeli ad Arcugnano. FOTO DI STEFANO MARUZZO
Quello che resta del sito denominato Porto degli Angeli ad Arcugnano. FOTO DI STEFANO MARUZZO

Doveva essere “la culla storica degli antichi veneti”. Dov’era nata la nostra stessa civiltà. Un ritrovamento che «avrebbe portato a riscrivere la storia del Nord Italia e forse dell’Europa stessa» diceva il suo scopritore.

Una pagina di storia depositata sui gradoni di un “anfiteatro”, il cui rinvenimento venne annunciato a sorpresa, «come tra le più importanti scoperte archeologiche dei nostri tempi» come lo definì Franco Malosso, in arte Franz Von Rosefranz, musicista e pseudo archeologo di Arcugnano, che vantava d’aver scoperto  “l’antico Porto degli Angeli” tra i Monti Berici. Da quel trionfale annuncio oggi rimane ben poco, eccetto dei faldoni di carte processuali che vedono il Malosso e le società a lui collegate nell’occhio di una inchiesta che presto emetterà una sentenza per abuso edilizio e deturpazione di un luogo naturale. 

Intanto, il sito dove è stato costruito l’anfiteatro oggi si mostra con una spettrale e decadente immagine, con olezzi dai ristagni d’acqua marcescente.

L’impressione è che la natura stessa voglia stendere un  velo pietoso su questa storia. L’area da qualche mese è recintata, lasciando tutto com’era nell’ottobre scorso, quando durante un raduno pseudo-politico del C.N.L.V (Comitato Nazionale di Liberazione del Veneto), l’archeologo per esaltazione di Arcugnano, annunciava al mondo il suo ritrovamento.

Smorzati i toni trionfalistici e proclami d’indipendentismo, la realtà oggi sta tutta in una fotografia aerea, immortalata dal deltaplano del noto fotografo vicentino Stefano Maruzzo, che stavolta più che catturare un’immagine simbolica del nostro paesaggio, ha immortalato quella che potrebbe essere la fine di una “favola”.

Con il laghetto, ornato da colonne in gesso, putti marmorei rinascimentali e divinità greche bendate, ridotto ormai a due pozzanghere d’acqua stagnante, regno di rane e zanzare, con una zattera alla deriva con sopra tre materassi di qualche godereccia festa tenuta prima del sequestro.

In piedi per ora è il ciclopico muro di polistirolo sul modello di Ben Hur, espressione di qualche mente scenografica che qui si è sbizzarrita, si sgretola inevitabilmente rilasciando  a terra il materiale poliuretanico.

E dei gradoni in pietra cosa resta? Dal cielo, l’anfiteatro inselvatichito con le erbe spontanee disseminate qua e là tra i gradoni, si ha un’immagine più bucolica della storicità qui ventilata, con i segni del tempo che ne potenziano la decadenza e alimentano il fascino delle pietre invecchiate artificialmente.

Il decadentismo dell’anfiteatro lo si intravvede anche nelle strutture soprastanti con i gazebo, le panchine e gli sdrai abbandonati. Ultimo atto forse, in previsione della decisione dalle autorità giudiziarie e dalla Sovrintendenza di Verona, sul destino dell’area.

Per ora è terra di nessuno. Anche perché greci, romani e celti non possono comparire in tribunale in qualità di testimoni. Loro che potrebbero mettere l’ultima parola su questa favola dei tempi moderni.

Antonio Gregolin

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