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Dagli scavi preistorici 25mila reperti

L’archeologa Alessandra Livraghi direttrice degli scavi con in mano la mandibola del megacero.  GUARDA
L’archeologa Alessandra Livraghi direttrice degli scavi con in mano la mandibola del megacero. GUARDA
L’archeologa Alessandra Livraghi direttrice degli scavi con in mano la mandibola del megacero.  GUARDA
L’archeologa Alessandra Livraghi direttrice degli scavi con in mano la mandibola del megacero. GUARDA

Sono 25 mila finora i reperti in studio rinvenuti dagli scavi al covolo de Nadal, in alta Val di Calto, in territorio comunale di Zovencedo, ai confini con Val Liona e Villaga. Considerato un prezioso giacimento di testimonianze dell’uomo di Neanderthal nei Colli Berici, con datazioni risalenti a oltre 70 mila anni fa, ha visto nei giorni scorsi concludersi l’ultima delle campagne di scavi iniziate tre anni fa. Dalle ricostruzioni compiute finora dall’Università di Ferrara, attualmente ancora in via di verifica e approfondimento sotto la guida del prof Marco Peresani e dall’archeologa Alessandra Livraghi, direttrice degli scavi, è emersa la particolarità del sito, che vede una buona metà dei ritrovamenti di resti di megacero e di bisonte.

Appartiene infatti alla prima specie, oggi estinta, il reperto di dimensioni maggiori giunto quasi intatto fino ai nostri giorni, ovvero una mandibola con due denti molari di questo grande cervo il cui esemplare adulto poteva arrivare a pesare otto quintali con un’altezza fino a due metri al garrese e tre alla testa, dotata di poderose corna che fino ai tre di metri di apertura del palco ramificato. «E’ proprio la presenza dello sfruttamento intensivo del megacero da parte dei primitivi che vissero nei Berici decine di migliaia di anni fa a rendere il sito tra i più interessanti», spiega Livraghi. «Il megacero è certamente presente anche in altri contesti ma assai di rado è la specie più utilizzata come risorsa primaria e questo, oltre che sorprendente, fa del sito di Zovencedo qualcosa di unico in Europa, perché se ne sono riscontrati soltanto nella Francia meridionale e in Spagna». E la caccia ai grossi animali da parte dei primi abitatori dei Berici fa pensare all’area come ad un’antica e abbondante riserva di caccia. «La scoperta sul sito di selci rosse provenienti da altri luoghi fa pensare ad una sorta di triangolazione nomade con i Lessini e gli Euganei, tale da potersi intendere come una vera e propria via seguita nel percorso di approvvigionamento del cibo – precisa la studiosa -. L’ipotesi allo studio è quindi che la zona dovesse essere molto ricca di risorse per la sopravvivenza, dato l’ambiente favorevole. I Berici, dal punto di vista morfologico, erano allora molto simili a come sono adesso. La zona era però fornita, si stima, di diverse risorgive e ruscelli, dove gli animali potevano abbeverarsi, ma anche di prati aperti, con boschi con alberi bassi o arbusti a copertura rada, e con un clima più freddo, ideali per la proliferazione di mandrie di bisonti nelle praterie e di megaceri nella parte boschiva». Gli studi si stanno soffermano anche sui metodi di caccia. «Per animali così imponenti occorrevano più cacciatori coordinati tra loro, se si tiene a mente – aggiunge l’archeologa - avveniva senza arco e frecce, inventate più tardi, ma solo con delle specie di lance, chiamate “propulsori”, cioè dei semplici bastoni con selci immanicate. Resta poi da capire se usassero, e come, delle trappole».

Matteo Guarda

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