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PHILIP DICK CACCIATORI DI ANDROIDI

La copertina del libro “Cacciatori di androidi” di Philip Dick Una scena del film di Ridley Scott “Blade Runner”
La copertina del libro “Cacciatori di androidi” di Philip Dick Una scena del film di Ridley Scott “Blade Runner”
La copertina del libro “Cacciatori di androidi” di Philip Dick Una scena del film di Ridley Scott “Blade Runner”
La copertina del libro “Cacciatori di androidi” di Philip Dick Una scena del film di Ridley Scott “Blade Runner”

Ma gli androidi sognano pecore elettriche? Una domanda strampalata, se non fosse nata dall’immaginazione di Philip K. Dick e soprattutto se non fosse il titolo originale del libro, ribattezzato in Italia “Il cacciatore di androidi”, dal quale nacque Blade Runner, uno dei film più acclamati della storia del cinema. La pellicola di Ridley Scott è del 1982, ma il romanzo compie mezzo secolo quest’anno, essendo stato pubblicato nel 1968. E’ il ventitreesimo del prolifico autore di Chicago, già premiato nel 1963 per “La svastica sul sole”, ma non ebbe grande fortuna. Per la verità tutti gli scritti di Dick furono apprezzati soltanto dopo la sua morte, avvenuta per infarto proprio nel 1982 senza dargli il tempo di vedere se non qualche scena del film in lavorazione. Ma il futuro Blade Runner è considerato quasi unanimemente una delle sue opere meno riuscite, schiacciato anche dalla vicinanza con il capolavoro “Ubik”, edito nel 1969. Fu il cinema a trasformare profondamente il romanzo, incentrando tutta la vicenda sulla caccia ai replicanti e sui temi della creazione e della vita, perpetuando personaggi epici laddove Dick li aveva concepiti pallidi. Il cacciatore di taglie Rick Deckard non somiglia certo a Harrison Ford: è stempiato e dimesso, e soprattutto è sposato con una donna depressa, totalmente dipendente dai “modulatori di umore programmabili” che condizionano i viventi (marchingegno di cui non c’è traccia nel film). Sposato, e un po’ ingenuo, è anche Roy Baty (con una “t” sola nel libro), il capo degli androidi ribelli: e nemmeno si sogna di proferire la celebre frase «Ho visto cose che voi umani...». Ancora, la bella Rachel, di cui Deckard s’innamora, è una doppiogiochista. E non in una sola pagina si trova la parola «replicanti»: fu il regista a coniare il vocabolo. Restano, quelli sì, i nomi di molti dei protagonisti e il clima post-apocalittico della metropoli in cui si svolge la vicenda: ma mentre Scott immortala una Los Angeles battuta da una pioggia incessante, Dick descrive una San Francisco impestata dalle polveri nucleari che lentamente stanno riducendo in “informe palta” (l’intraducibile “kipple”) tutta la Terra. Soprattutto, le pagine scritte non portano a provare alcuna simpatia per gli androidi, perché quella che nel film è la loro solidale e quasi filosofica aspirazione all’esistenza, nel libro è freddezza senza empatia, perfino tra compagni di sventura. Empatia che però stanno perdendo anche gli umani, come si accorge tra angoscia e rassegnazione il Deckard dickiano. Per Hampton Francher e David Peoples, sceneggiatori del film, il romanzo fu dunque poco più di uno spunto. Scartarono completamente due filoni quasi più importanti e simbolici di quello degli androidi (che d’altronde per Dick erano normalità, giacché costellava di simulacri, cloni o robot quasi tutte le sue storie). Uno, totalmente omesso, è la sottile lotta tra un presentatore di talk show e un predicatore ascetico che in una società devastata si contendono il seguito dell’opinione pubblica. L’altro, appena sfiorato nella pellicola, è la passione smodata degli umani per gli animali, diventati rarissimi dopo il conflitto nucleare: possederne uno è uno status symbol, e aziende specializzate fabbricano perfette imitazioni utili da tenere in terrazzo per ingannare i vicini (Deckard ha appunto una pecora elettrica). Tra tutti i romanzi di Dick che diedero origine a film (Atto di forza, I guardiani del destino, Minority report, Un oscuro scrutare), dunque, quello su Blade Runner è il meno rispettato. Eppure, con i suoi molti difetti, andrebbe riletto perché anticipa i temi della clonazione, dell’influenza dei media popolari sulla società, dello sviluppo delle intelligenze artificiali e altro. Come sempre, il visionario scrittore, dedito alle droghe e vittima di stati allucinatori, ha capito il mondo con decine di anni d’anticipo. E non consola sapere che la caccia di Deckard, nel libro, si svolge il 3 gennaio del 1992, già trascorso da oltre un quarto di secolo: il messaggio del profeta di Chicago è che un inquietante passato può sempre minacciare un incerto futuro. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

Alessandro Comin

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