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VICENZA

Set in piscina contro gli stereotipi. «Insegno ai bimbi a superare gli ostacoli»

La fotografa Amatruda, 28 anni, con i bimbi del Patronato Leone XIII ha raccontato in fiaba la sua vita con una malattia rara
La fotografa Claudia Amatruda, 28 anni, ieri nella piscina del Patronato Leone XIII per girare un video con i bambini
La fotografa Claudia Amatruda, 28 anni, ieri nella piscina del Patronato Leone XIII per girare un video con i bambini
La fotografa Claudia Amatruda, 28 anni, ieri nella piscina del Patronato Leone XIII per girare un video con i bambini
La fotografa Claudia Amatruda, 28 anni, ieri nella piscina del Patronato Leone XIII per girare un video con i bambini

«Non voglio provocare, né impietosire. Voglio semplicemente raccontare una normalità, che esiste, e che va oltre i soliti stereotipi». Una normalità che per Claudia Amatruda, 28 anni, pugliese trasferitasi a Bologna, è fatta di arte, fotografia, ma anche di morfina, fisioterapia, stampelle, sedia a rotelle, dolore cronico e visite in ospedale. Il tutto a causa di una malattia rara di cui è affetta, la sindrome di Ehlers-Danlos del terzo tipo, che attualmente colpisce circa 500 persone in Italia. Anche se guardando questa giovane artista all’opera, tutto si potrebbe pensare tranne che ogni giorno per lei sia una sfida così grande.

Nella piscina del Patronato Leone XIII

Difficile immaginarlo anche ieri, mentre nelle piscine del Patronato Leone XIII, in contra’ Vittorio Veneto, coordinava un set di fotografia con un gruppo di piccoli attori d’eccezione, ossia i piccoli alunni di terza elementare della scuola paritaria, coinvolti poi anche nella registrazione di un video. Un’iniziativa pensata per celebrare i 50 anni dell’impianto natatorio e sottolineare il tema del benessere legato all’elemento acqua. La strategia per coinvolgere i piccoli collaboratori è stata quella di ricorrere a una favola scritta dalla stessa Amatruda, con protagonista una sirena che in acqua sta bene, mentre una volta uscita sulla terra ferma ha bisogno di aiuto. In sostanza, la sua storia spiegata ai bambini con il tocco della fantasia. 

Gli elementi del racconto

Ed eccoli gli elementi del racconto prendere forma: lei, Claudia, che - stringendo i denti - si veste da sirena; e loro, i piccoli attori, che si trasformano in “cose del mare”, come la medusa, il polipo, la goccia o «il mare mosso». Il tutto con l’aiuto dell’immaginazione, visto che i costumi di scena sono stati assemblati dagli stessi bambini, sfruttando i tipici strumenti della piscina, come tubi galleggianti e tavolette. Il video, che sarà completato anche con una parte girata da Amatruda con un attore, sarà poi condiviso durante le celebrazioni dell’anniversario della struttura. 

I bambini

«I bambini sono stati preparati e guidati in questa esperienza e hanno mostrato un grande coinvolgimento - raccontano le maestre Cristina Giavazzi e Valeria Sartori - è un’esperienza significativa per stimolare riflessioni e sviluppare capacità empatica». 

La malattia senza cura

«A 19 anni ho scoperto di avere una rara malattia degenerativa e senza cura - ha raccontato Amatruda in una pausa -. Ho iniziato a star male tra la maturità e la scelta dell’università, nell’età più bella, proprio quando ti sembra di poter fare qualunque scelta. Da allora convivo con dolore alle gambe, alle braccia, alla schiena e problemi agli organi interni, con la necessità anche di interventi chirurgici. Purtroppo, non essendoci cura, si può agire solo per alleviare i sintomi attraverso farmaci e fisioterapia. E con l’acqua, perché quando sono in piscina trovo grande sollievo». Sulle cause, invece, non si può incidere. Almeno per ora. La speranza è infatti che la ricerca faccia la propria strada. Velocemente. «Ma purtroppo in Italia la ricerca non avanza per mancanza di fondi, soprattutto per sindromi come la mia, malattie rare tra quelle rare. In America sono più avanti, ma i tempi sono lunghi». 

E nel frattempo?

Si vive. «Io so che giornate come questa, in cui sto in piedi, fotografo, mi muovo, poi mi costringeranno a giorni ferma e ad aumentare le dosi di morfina. Ma questa consapevolezza non mi può impedire di lavorare e fare altre cose, altrimenti significherebbe darla vinta alla malattia e non fare più niente». Il tempo dello sconforto c’è stato, ma ora vince la voglia di reagire. Con un aiuto fondamentale arrivato da un’antica passione, la fotografia, che dopo la specializzazione universitaria è diventata un lavoro a tutti gli effetti. 

La reazione

«Quando ho scoperto di essere malata mi sono chiusa in casa, mi sono isolata, ho perso le amicizie. Poi mi sono affidata alla fotografia. Attraverso l’autoritratto ho imparato a conoscere nuovamente il mio corpo». A “farci pace”, in un certo senso. «Man mano che le mie esigenze cambiavano, cambiavano anche le foto. Ho scatti anche con le stampelle, con la carrozzina. Ma perché sono parte delle mie giornate. Non sono le foto stereotipate del disabile che deve impietosire, ma sono foto della mia normalità. All’estero è molto più facile imbattersi in un approccio artistico di questo tipo, in Italia invece facciamo ancora fatica ad affrontare questa realtà. Con il mio lavoro spero di dare visibilità alle esistenze di molte persone». 

Alessia Zorzan

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