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IL PRIMO MAGGIO

Il lavoro cambia: «Flessibilità, famiglia e più valore al tempo»

La ricorrenza è l’occasione per fare il punto sulla rivoluzione in corso. Dalla settimana corta allo smart working, le richieste di nuovi contratti
Sempre più numerosi i lavoratori alla ricerca di un nuovo punto di equilibrio tra vita lavorativa e privata ARCHIVIO
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Sempre più numerosi i lavoratori alla ricerca di un nuovo punto di equilibrio tra vita lavorativa e privata ARCHIVIO

Che all’origine del fenomeno ci sia la pandemia o che, invece, il seme del cambiamento fosse già nell’aria, poco importa. Quel che è certo è che il mondo dell’occupazione vede da tempo emergere una nuova tendenza, con un numero sempre maggiore di lavoratori, soprattutto under 35, che non considera più lo stipendio come unico criterio di scelta del posto di lavoro, ma chiede molto altro. E questo “altro” ha a che vedere con la possibilità di conciliare la vita privata con l’ufficio o la fabbrica, tra orari flessibili, smart working e formazione. Alla ricerca, cioè, di un nuovo punto di equilibrio tra il tempo dedicato alla professione e quello riservato a se stessi e alla propria famiglia. Un’impostazione che sta rovesciando i paradigmi del mondo del lavoro e che diventa oggetto di riflessione in occasione del Primo maggio. Ricorrenza che offre lo spunto anche per accendere i riflettori su un altro trend: la scarsa fiducia nel futuro che attraversa soprattutto le lavoratrici e chi, in generale, ha contratti precari e con retribuzioni più basse. 

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La ricerca

A mettere a fuoco i due temi è il Centro studi Cisl Vicenza, sulla base dei dati elaborati dai ricercatori Stefano Dal Pra Caputo e Francesco Peron su un campione di oltre 1.200 lavoratori vicentini. Cui è stato chiesto di rispondere alla domanda: “Cosa migliorerebbe del suo attuale lavoro?”. Al netto dell’opzione “un salario migliore”, scelta dal 69,1 per cento degli intervistati, le lavoratrici e i lavoratori hanno indicato come fondamentale la possibilità di percorsi di crescita in azienda: lo ha fatto il 27,8 per cento degli under 35 contro il 22,1 per cento delle vecchie generazioni. Sempre i giovani (24,3%) sembrano più propensi agli orari flessibili, rispetto al campione restante (21,5%). Elementi significativi anche i benefit aziendali, in particolare per i lavoratori che hanno meno di 35 anni (20,8%). Proseguendo, si arriva a un’altra domanda cruciale: “In futuro, lavorerebbe in smart working?”. La possibilità, in questo caso, è ben vista dal 53,7 per cento del campione che dichiara di voler accedere al lavoro agile sia part time (29%), sia a tempo pieno (24,7%): particolarmente rilevante il fatto che quasi il 70 per cento degli intervistati inclini al cambiamento, abbiano un’età inferiore a 35 anni.

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Il punto

«È in atto un cambiamento culturale - commenta il segretario generale della Cisl berica, Raffaele Consiglio - per il quale non conterà più lavorare tanto, ma produrre valore. Per i giovani, il lavoro è uno strumento, non l’obiettivo dell’esistenza. Si tratta di un fenomeno che la pandemia ha accelerato, l’isolamento sociale ci ha fatto percepire l’importanza della vita di relazione». Ci sono poi aspetti legati alle trasformazioni sociali: «La generazione precedente - prosegue il sindacalista - era quella del grande miraggio della ricchezza, figlia di genitori che hanno vissuto la povertà, e per questo caratterizzata da una grande voglia di riscatto. Ora viviamo in una società più evoluta, per quanto vi sia il rischio di tornare indietro, si pensa di più alla qualità della vita che alla fame di ricchezza. Ma non si dica che i giovani non hanno voglia di lavorare; semplicemente sono cambiati i paradigmi, si mettono al centro altri bisogni. Ecco perché, se nello schema precedente, erano solo le esigenze dell’azienda a definire gli orari di lavoro, ora una buona organizzazione deve rispettare anche i bisogni dei lavoratori. Le imprese che comprendono questo, avranno successo nella capacità di attirare competenze». 

Futuro incerto

Per molti, però, la priorità continua ad essere quella di una maggiore stabilità economica. In questo contesto, l’inflazione e la conseguente erosione dei salari aggravano la sfiducia nel futuro. Alla domanda “Secondo lei, il 2023 sarà migliore, peggiore o uguale rispetto al 2022?”, hanno risposto “peggiore” soprattutto le lavoratrici (55,7% del campione femminile contro il 52% del campione maschile). A incidere negativamente nella visione del futuro è anche il reddito. Tra chi ha una retribuzione tra 0 a 749 euro solo il 9,8 per cento ritiene che il 2023 sarà un anno migliore. «Chi ha condizioni di lavoro più precarie - riflette Consiglio -, fa fatica a riporre fiducia in una prospettiva futura. Questa visione colpisce molto le donne e si collega al tema della precarietà dell’occupazione femminile, condizione che determina la decrescita demografica, altro grave problema dei nostri tempi». 

 

Laura Pilastro

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