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Vicenza/Thiene

No vax morto di Covid a 48 anni. «Rabbia e tristezza, è stato irremovibile»

Una fine atroce, assurda. «Quasi un lucido suicidio», sussurra un medico del San Bortolo. Alessandro Mores, 48 anni compiuti lo scorso 22 maggio, agente di commercio nativo di San Michele al Tagliamento ma residente prima a Thiene e poi in città, padre di tre figli, no-vax dichiarato, ad oltranza, su tutta la linea, è morto per avere rifiutato fino all’ultimo quello che poteva essere l’estremo tentativo per salvarlo: il tubo che lancia ad alta pressione l’ossigeno nei polmoni devastati, inariditi dal Covid. I medici lo hanno pregato fino allo sfinimento di recedere dalla sua decisione, hanno chiamato i familiari, gli hanno ripetuto che, se non avesse accettato di farsi intubare, non ce l’avrebbe mai fatta. Ma tutto è stato inutile. E, in poche ore, la tragedia si è compiuta.
L’odissea, che ha gettato un velo di mestizia in tutto l’ospedale e ha sconvolto medici e infermieri pur abituati, in un reparto da ultima spiaggia come la rianimazione, a vedere la morte ogni giorno da vicino, inizia alle 18.49 di martedì. Mores arriva al San Bortolo in ambulanza in codice rosso. A chiamarla è stato uno dei figli. Mores sta male da due settimane, e da un paio di giorni gli manca l’aria. Alla specialista del pronto soccorso Covid che lo visita le sue condizioni appaiono molto compromesse. Dice che non è vaccinato. «Ma perché non è venuto prima?», gli chiede la dottoressa. L’uomo, positivo al tampone, è affamato d’aria, in uno stato di grave insufficienza respiratoria. Ha una disastrosa polmonite bilaterale. Non riesce più a respirare. Come affogasse. L’unica scelta in quel momento è di sottoporlo, ancora nell’ambulatorio del pronto soccorso, alla cosiddetta Niv, la ventilazione non invasiva, quella in cui è sempre il paziente a comandare le fasi del respiro. I medici lo fanno subito. Gli mettono sul viso la maschera che pompa nei polmoni aria arricchita di ossigeno. E, in tempo reale, allertano i colleghi della terapia intensiva. 
L’anestesista di guardia arriva in un baleno, ha una grossa esperienza di Covid e non ha dubbi: «Occorre intubarlo». La maschera non basta più. Non esistono alternative. È la sola possibilità per cercare di strapparlo a una morte sempre più imminente, a un destino senza ritorno. La dottoressa, per non perdere tempo prezioso come si fa in emergenza, vorrebbe intubarlo già in pronto soccorso per portarlo poi in terapia intensiva. Il paziente viene informato di tutto. L’anestesista gli spiega quali possono essere le conseguenze. Se non si fa intubare, non ce la fa. Può non arrivare al giorno dopo. Ma Mores dice di no.
È irremovibile. Rifiuta una, cinque, dieci volte. Non serve a nulla dirgli che quell’ostinazione può costargli la vita. Addirittura firma una carta con cui chiede di non essere intubato. La situazione si fa disperata. Viene chiamato anche il primario di rianimazione, Vinicio Danzi. Ogni secondo diventa determinante. E, a questo punto, i sanitari contattano telefonicamente i familiari. Una concitata chiamata in viva voce. Uno dei figli lo implora a lungo di farsi intubare. Ma non c’è nulla da fare. Non gli resta che riferire ai medici quella che è la volontà del padre. Nessuno riesce a farlo tornare indietro. Non vuole essere intubato. Non si trovano varchi. Il figlio dirà poi che quel “no” caparbio, tenace, accanito, è coerente con l’atteggiamento che il padre ha sempre avuto. 
Una sola concessione quando peggiora in modo irreversibile. Accetta di andare nel bunker della rianimazione per continuare la ventilazione non invasiva. Mancano dieci minuti all’una di notte. Gli propongono ancora una volta il tubo della salvezza che spinge automaticamente nei polmoni l’aria ossigenata. La speranza è che, una volta ricoverato in quella terra di mezzo sospesa fra il baratro e le resurrezione che è la terapia intensiva, in un reparto dove gli effetti distruttivi del Covid sono visibili, fra macchine, tubi, fili, fra medici che lottano come leoni per salvare persone, fra malati con gli occhi invasi di paura, Alessandro si convinca, decida finalmente di farsi curare. I medici insistono fino alla fine. Sono minuti drammatici. Ma, ormai, è troppo tardi. Sono circa le 2. La vita, “tutto un equilibrio sopra la follia”, è già volata via. «Tanta rabbia e tristezza», dice il primario Danzi.

Franco Pepe

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