<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">
VICENZA

La figlia di Moro e l’ex brigatista. «C’è un legame che ci unisce»

L’incontro tra la figlia dell’ex leader Dc e Grazia Grena è avvenuto ieri mattina davanti agli studenti del liceo Pigafetta
Agnese Moro (a sinistra) tiene la mano di Grazia Grena FOTOSERVIZIO COLORFOTO
Agnese Moro (a sinistra) tiene la mano di Grazia Grena FOTOSERVIZIO COLORFOTO
Agnese Moro (a sinistra) tiene la mano di Grazia Grena FOTOSERVIZIO COLORFOTO
Agnese Moro (a sinistra) tiene la mano di Grazia Grena FOTOSERVIZIO COLORFOTO

l primo impatto è straniante: ti ritrovi davanti una donna di 72 anni il cui padre è stato assassinato dalle Brigate Rosse che accarezza affettuosamente la mano della donna seduta al suo fianco che invece in quegli stessi anni ha scelto la lotta armata.
«Per me questo periodo dell’anno è una non-primavera», dice a un certo punto la prima donna guardando il cielo azzurro attraverso le finestre dell’aula magna del liceo Pigafetta.

Il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro

Già, perché 46 anni fa, in questo stesso periodo, suo padre era rinchiuso nella “prigione del popolo” da 28 giorni. Tempo altri 27 giorni e il suo corpo veniva fatto ritrovare dalle Br nel bagagliaio di una Renault rossa parcheggiata in via Caetani. Suo padre era Aldo Moro. Lei, Agnese, è la terzogenita del presidente della Democrazia cristiana che davanti agli studenti racconta di come, scegliendo il percorso della giustizia riparativa, l’incontro è organizzato dalla Camera penale insieme al Comune e al Provveditorato, è riuscita a curare le ferite dell’anima attraverso l’incontro con chi quel male lo ha causato. Come chi le siede accanto. È la donna a cui accarezza la mano: Grazia Grena, ex terrorista di Prima Linea, condannata a 8 anni per organizzazione di banda armata e rapina, dissociatasi solo in un secondo momento dalla lotta armata e oggi volontaria nelle carceri, mamma e moglie dell’ex brigatista Roberto Vho. 

Protagonista della stagione di sangue

Grena non è direttamente responsabile del sequestro di Moro e non ha ucciso ma è stata protagonista di quella stagione di sangue. Ecco perché di primo acchito è spiazzante osservare l’amicizia tra le due. Per capire come si è arrivati fin qui occorre fare un passo indietro. «La morte di mio padre non è stata una tragica fatalità, qualcuno ha deciso intenzionalmente di premere il grilletto, qualcuno ha deciso intenzionalmente di togliermi la persona più importante della mia vita. Quando succede qualcosa di irreparabile come questa ci si illude che la giustizia penale curerà le ferite, ci si illude che più la pena è lunga e più questo dolore verrà riparato». 

Prigioniera del passato

Non è così. In lei, spiega, quella rabbia e quel rancore che non svelava all’esterno non se ne andavano, stavano lì a consumarla, a farla vivere prigioniera del passato. E questo vale per tutti i familiari delle vittime di quella stagione, che spesso non sono riusciti o più semplicemente non hanno voluto perdonare o avere a che fare con quei terroristi che, con la scusa di voler disarticolare lo Stato e con la complicità dei “cattivi maestri”, hanno scelto la violenza. Ciò che rende “speciale” Agnese Moro è il cammino che ha scelto per affrancarsi, almeno in parte, da quel dolore. «Perché incontrare chi ti ha fatto del male dovrebbe farti del bene?», dice. Esatto, perché? «Perché quel mondo immobile che sta dentro di te viene smosso. Mio padre non può ritornare, ciò che è avvenuto è irreparabile. Ma loro sono solo i cattivi per sempre e noi vittime per sempre o c’è un’altra possibilità?».

Un volto ai fantasmi

Spiega di aver voluto dare un volto a quelli che per lei erano solo fantasmi e che quei volti non erano più gli stessi di quei giovani che avevano abbracciato la lotta armata. «Ho potuto conoscere il loro dolore per aver fatto cose che non possono essere cambiate, per aver capito che hanno ucciso delle persone come loro». Questo per Agnese Moro è il punto-chiave: averli davanti e chiedere loro «hai capito che cosa mi hai fatto? Hai capito che mi hai tolto qualcuno che era il centro della mia vita? Voglio capire che hai capito il mio dolore. Come io capisco il tuo». Solo così, dice, si può «spezzare la catena del male».

È un percorso di cura reciproco

«Ero una ragazza di 19 anni - dice Grena - che combatteva per i diritti e per una società più giusta, convinta che ciò si potesse realizzare solo con la violenza». Poi il carcere, il processo, la consapevolezza del male fatto, la dissociazione pubblica. «Non rinnego niente del mio passato, rinnego gli strumenti di cui siamo stati portatori». “Strumenti” che hanno lasciato rivoli di sangue.

«Quello che abbiamo fatto è inconcepibile, è stato difficile convivere con ciò che ho fatto. La violenza porta solo violenza. Portare giustizia annientando l’altro non è possibile. Io e Agnese abbiamo attraversato il dolore ascoltando le rispettive posizioni e ci siamo incontrate: non è la giustizia della spada, è la giustizia dell’ago e filo». Quella che ricuce. Disarmarsi dalla rabbia non vuole dire dimenticare il male. «Questo male è stato fatto anche da chi ha impedito che il sequestro si concludesse in maniera positiva», dice Agnese Moro riferendosi alle forze politiche di allora. Perché una parte di verità sulla fine di Aldo Moro ancora non è stata scritta.

Roberta Labruna

Suggerimenti