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L'anniversario

Gli editoriali
e i corsivi
di quei giorni

Vicenza, via IV novembre il giorno dell'alluvione
Vicenza, via IV novembre il giorno dell'alluvione
Vicenza, via IV novembre il giorno dell'alluvione
Vicenza, via IV novembre il giorno dell'alluvione

2 novembre 2010

 

L'editoriale

FRAGILI, IRRESPONSABILI E COLPEVOLI di Ario Gervasutti

 

Nessuno si chiami fuori da quello che in queste ore vediamo sulle strade e nelle campagne vicentine. Nessuno può dire in coscienza che non era possibile prevedere quel che prima o poi sarebbe successo.

Certo, la rabbia per il pessimo funzionamento dei meccanismi di allarme è più che legittima: svegliarsi all'alba con l'acqua in casa senza nessun serio preavviso non è una situazione degna di un Paese moderno. Più di quarant'anni fa, quando ancora queste terre respiravano, non erano state soffocate dal cemento e tormentate dall'incuria, una alluvione definita storica aveva aperto ferite che la memoria non ha ancora cancellate. Ma la lezione non è servita.

Ce la siamo andata a cercare e per una volta non può funzionare il gioco dello scaricabarile. Questa non è solo una questione politica, nè solo una questione tecnico-idraulica. Per troppi anni questo territorio non è stato pensato, non è stato progettato, non è stato ascoltato, non è stato curato. Siamo andati avanti rattoppando e allargando, convinti che l'impunità riguardasse gli aspetti legali della vita quando invece è prima di tutto una condizione di immoralità.

Non sappiamo più curare, figurarsi se sappiamo prevenire. Quando la civiltà rurale era prevalente, la cura del proprio pezzo di terra era la cura di una parte per il tutto: oggi se si vede un mucchio di foglie davanti a un tombino a nessuno passa per la mente di andare a liberare lo scarico.

Tocca a qualcun altro, tocca allo Stato, tocca al Comune. Uno scarico di responsabilità che prima o poi paghiamo tutti. E togliamoci dalla testa di poter contare su aiuti esterni. Chi è causa del suo male pianga se stesso e si rimbocchi le maniche. Altrimenti questa non sarà stata l'ultima lezione.

 

3 novembre 2010

 

Corsivo

LA DISTANZA DAL PALAZZO di Ario Gervasutti

 

Non c'è niente di più efficace di una tragedia per misurare il grado di vicinanza tra il Palazzo e i cittadini: sono momenti nei quali la distanza si azzera. Almeno, questo accade in un Paese normale. In queste ore molti Palazzi si sono attivati di fronte a ciò che i cittadini vedono scorrere davanti agli occhi.

Ma il Palazzo principale, quello che sta a Roma, oggi conquista le prime pagine dei giornali con un fondamentale dibattito: è preferibile essere attratti da belle ragazze (non importa se minorenni o meno) o da giovanotti dell'altro sesso? In attesa che si pronunci l'Onu, ci preme avvertire i lettori che non potevamo esimerci dal trattare la determinante questione che tanto appassiona i vertici del Governo. Ma lo faremo a pagina 40.

Diciamo che è il nostro modo per prendere le giuste distanze.

 

L'editoriale

ISTITUZIONI AMMALATE DI FATALISMO di Giancarlo Corò

 

Davanti ai drammatici allagamenti di questi giorni il gioco delle polemiche appare tanto facile quanto inutile. Adesso è il momento di correre ai ripari e aiutare i cittadini e le imprese colpiti dall'alluvione a risollevarsi. Ma per evitare che quanto accaduto si ripeta, è tuttavia necessario riflettere seriamente sulle responsabilità di molti. Certo, i fenomeni di questi giorni sono il risultato di condizioni climatiche eccezionali. Ma non del tutto imprevedibili. Stupisce, francamente, l'impreparazione e il fatalismo con cui le istituzioni, a tutti i livelli, hanno affrontato questa emergenza. Nonostante negli ultimi tempi gli episodi di allagamento si siano moltiplicati in città, non si è visto nessun serio piano di gestione della crisi.

Nessun allarme meteo è stato trasmesso per tempo, né la protezione civile è apparsa pronta ad intervenire. Ma ciò che è peggio, è che non si intravede alcun chiaro disegno per prevenire il rischio di alluvioni e aumentare la sicurezza idraulica del territorio. Poco più di un anno fa, in vista delle elezioni, la Regione del Veneto approvava una legge che, di fatto, privava i Consorzi di Bonifica delle risorse necessarie alla manutenzione dei fiumi.

Nessuna voce si è alzata a denunciare questa operazione demagogica, passata con il consenso unanime di tutte le forze politiche. Anche nel vicentino, par di capire, gli investimenti di difesa idraulica sono stati ritenuti un lusso che i magri bilanci comunali non possono permettersi. Questo lusso, perciò, viene lasciato ai cittadini e alle imprese, che devono sborsare di tasca propria ad ogni allagamento. Le mancate scelte degli enti locali su un tema così importante si ribaltano, alla fine, in enormi costi sociali.

Non si tratta di fare il solito gioco qualunquista, con i politici cattivi da una parte, e la società civile dall'altra. Le colpe di quanto è avvenuto, come ricordava Ario Gervasutti nell'editoriale di ieri, sono davvero diffuse. Ma la politica ha una responsabilità in più: fissare regole e farle rispettare. Come quelle di non costruire su aree soggette ad esondazione e di imporre criteri costruttivi che non compromettano le condizioni idrauliche dei suoli. La politica ha anche il compito di trovare le risorse per realizzare opere che prevengano i disastri ambientali, comprese le alluvioni. Gli interventi necessari sono, in realtà, alla nostra portata.

Intanto per informare i cittadini sulle emergenze: a Venezia esiste da dieci anni un portale maree che comunica prontamente, tramite internet e sms, le situazioni di crisi.

È così difficile estendere anche all'entroterra della Serenissima un sistema simile? Ma bisogna soprattutto intervenire sulla difesa del suolo.

Le aree di esondazione controllata possono essere rese compatibili con colture idrofile e, in alcuni casi, anche con destinazioni a parco.

Infrastrutture più complesse, come i collettori idraulici, si possono realizzare in corrispondenza di strade e gallerie. La separazione delle acque meteoriche da quelle fognarie può favorire il deflusso in condizioni di piogge eccezionali. E anche i regolamenti edilizi possono favorire la diffusione negli edifici privati di micro-sistemi di difesa idraulica, da tempo presenti sul mercato. Investimenti di questo genere “pubblici e privati” avrebbero una resa sicura, evitando o limitando i più elevati costi degli interventi di riparazione dei danni a disastro avvenuto. Ma affinché tali azioni prendano piede, serve uno sguardo sul futuro che la politica, schiacciata com'è sui sondaggi di gradimento, sembra avere completamente perduto.

 

4 novembre 2010

 

Corsivo

LO SPRECO DEI LUOGHI COMUNI di Ario Gervasutti

 

Non è facile trovare una notizia positiva in mezzo all'acqua che ci circonda. Contiamo i morti, contiamo i danni: e contiamo su noi stessi per uscire dal fango. I parlamentari veneti si sono mobilitati, il governatore Zaia ha scritto a Berlusconi, un modo diretto per fargli capire che c'è la sensazione di una sottovalutazione del disastro. Magari non è vero, magari nelle prossime ore il Consiglio dei ministri penserà ai milioni di danni subiti dalle famiglie vicentine e non alle escort, ma nel frattempo proviamo a farcela da soli. Ed è qui che salta fuori la notizia positiva: a spalare fango ci sono i 300 militari portati in dote da Bertolaso, ma ci sono soprattutto centinaia di volontari. E tra loro anche un folto gruppo di extracomunitari. La miglior risposta ai troppi luoghi comuni sprecati a sproposito su queste terre.

 

5 novembre 2010

 

Il Caso

IGNORATI PERCHÈ ANTIPATICI? di Cesare Galla

 

Trenta ore dopo l'inizio del disastro è arrivato il capo della Protezione Civile. Ha guardato, ha ascoltato, e ha deciso di fare intervenire l'esercito. Può bastare? Naturalmente no. Vicenza (e il Veneto) sono in ginocchio, l'aiuto delle prime ore è indispensabile e benedetto, ma per ripartire servono anche altre “spinte”. Leggi gli aiuti speciali per le calamità naturali stanziati dal Governo. Ma arriveranno? Saranno adeguati alla situazione? In altre parole: a Roma si sono resi conto fino in fondo di quello che è successo? Non è che poi, comunque, prenderanno tempo e magari finiranno per guardare da un'altra parte? Non è che con la scusa del Veneto opulento e superorganizzato se ne laveranno le mani? Sono frangenti in cui è difficile ignorare la sensazione che se così avvenisse, sarebbe perché ci considerano “antipatici”.

Questo timore sta dilagando - passateci la battuta - come il Bacchiglione domenica notte. E naturalmente ha subito preso le vie politiche. C'è chi addita il sistema mediatico nazionale e lo accusa di avere di fatto scritto con le sue (dis)attenzioni l'agenda governativo. C'è chi sembra già pronto ad antiche e nuove battaglie e studia le strategie, chi ha già cominciato a battere i pugni. Quasi sempre, sottotraccia ma neanche tanto, corre la convinzione che nel momento del bisogno, qui e adesso, non ci stanno prendendo sul serio, non arrivano le risposte di cui abbiamo bisogno.

È proprio così? Qualche risposta, qualche chiarimento, può darceli lo scrittore che per primo ha messo nero su bianco il problema della nostra “antipatia”, Gianmario Villalta. Friulano di Pordenone, 51 anni, ma da sempre molto vicino al Veneto (non solo geograficamente), poeta e romanziere ma anche fine organizzatore culturale (“Pordenonelegge” è una sua creatura), Villalta è l'autore di Padroni a casa nostra. Perché a Nordest siamo tutti antipatici, un saggio socio-antropologico dal passo narrativo uscito poco più di un anno fa da Mondadori, in cui proprio questo problema si mette a fuoco.

Villalta è almeno un po' “alluvionato” anche lui: racconta che di alcuni campi dalle sue parti, ereditati insieme ai congiunti e ahimè situati in una zona golenale, è rimasta ben poca cosa. Ma con antico fatalismo nordestino, se ne fa una ragione. Piuttosto - e il dettaglio fa riflettere - è stupito di quel che è accaduto a Vicenza. Non sapeva che questa fosse una zona di alluvioni. Se non lo sapeva o non lo ricordava lui, uomo di raffinata cultura, come sperare che se ne rendano conto un'opinione pubblica e una politica distanti (in tutti i sensi) da qui? E del resto, per tornare al carattere nordestino e ai timori di adesso: a forza di non lagnarsi mai e di arrangiarsi sempre, finisce che “all'esterno” sembra una casualità sia pure molto pesante quella che invece è anche una drammatica serialità storica che richiederebbe risposte di fondo.

«Hanno ragione - chiosa Villalta - quelli che adesso in Veneto alzano la voce per chiedere aiuto. Anche se qui c'è ricchezza - e poi, non per tutti e non dappertutto - il problema di oggi è molto serio, le difficoltà sono forti, le necessità impellenti».

Il punto è - anche qui - che esiste una sorta di atavica difficoltà a chiedere favori, un atteggiamento che spesso viene equivocato. E lo scrittore non nega il rischio che fuori dal Veneto serpeggi l'idea che poiché siamo ricchi e boriosi, ci dobbiamo arrangiare anche questa volta.

Per Villalta, è invece necessario prestare attenzione ai bisogni laddove si manifestano, ed è chiaro che se il Veneto avesse difficoltà a ripartire dopo un disastro del genere il problema non sarebbe solo nostro ma dell'Italia in generale.

Il fatto è, però, che l'immagine del Veneto dal punto di vista mediatico e politico non aiuta davvero... In fondo, non è contraddittorio sbertucciare il concetto stesso di unità d'Italia e avere un'idea della solidarietà nazionale decisamente particolare, e poi stracciarsi le vesti se questa solidarietà appare a rischio?

«Certo, la classe politica leghista strilla molto: è sempre impegnata in una ricerca di consenso strettamente collegata alle sollecitazioni mediatiche, come del resto ormai in questo Paese avviene per tutta la politica. A forza di gridare “al lupo! al lupo!” in chiave identitaria e locale, si finisce per rischiare di essere abbandonati a se stessi».

 

6 novembre 2010

 

L'editoriale

IL CONTO CHE NON TORNA di Ario Gervasutti

 

Dicono che a caval donato non si guarda in bocca. A costo di sembrare maleducati, noi invece lo facciamo: e dopo aver ringraziato per la ventina di milioni che il Governo ha destinato come primo contributo all'emergenza, ci permettiamo di fare alcune osservazioni.

I soldi messi in campo saranno divisi tra il Veneto, la Calabria e altre località del Centro e del Sud. La fetta destinata a Vicenza sarà, se tutto andrà bene, di un paio di milioni di euro: probabilmente meno di quel che la Provincia guidata da Attilio Schneck ha già stanziato dopo poche ore pur non avendo certo la disponibilità di risorse dello Stato. Per avere qualche metro di paragone, il sostegno al rilancio (e sottolineo "rilancio") della raccolta differenziata in Campania è stato finanziato dal Governo con 30 milioni di euro; il completamento (e sottolineo "completamento") dell'inceneritore di Acerra con 4,5 miliardi; sono invece 526 i milioni stanziati per interventi di compensazione ambientale legati all'emergenza rifiuti, e 220 i milioni che la Regione Campania ha messo sul tavolo per 97 opere ambientali, metà dei quali donati dallo Stato.

Per Vicenza invece si sta parlando di cifre che - sommate - arrivano si e no ai 5-6 milioni a fronte di un disastro che a detta di chiunque abbia avuto la decenza di informarsi ha prodotto danni per non meno di 150 milioni. I casi sono due: o a Roma non sanno di che si parla, o fingono di non saperlo. Comunque sia, siamo lontani dalla realtà.

È colpa dei veneti, dicono in molti: come spiega qui accanto un intellettuale vero come Ferdinando Camon, a furia di dire che stanno meglio da soli, che il resto del Paese è una zavorra di cui farebbero a meno, ora che c'è bisogno quel "resto del Paese" gira la testa dall'altra parte. Ragionamento che però ignora un piccolo particolare: i veneti hanno sempre pagato - brontolando - il dovuto e anche più a quella "zavorra", e il saldo tra ciò che versano e ciò che ricevono è in negativo per miliardi di euro.

Perciò i media nazionali, i politici delle altre regioni e i commentatori che sotto sotto pensano «gli sta bene, si arrangino» dovranno mettersi il cuore in pace: stavolta romperemo le scatole fino a quando non saranno messe sul tavolo tutte le risorse per ripagare i danni e per impedire che il disastro si ripeta.

Le emergenze idriche dall'ottobre 2009 ad oggi hanno costretto il governo a stanziare quasi 240 milioni di euro: soldi usati solo per riparare i danni, mai per prevenire. Altrove si preferisce piangere e strepitare, e spesso si ottiene il risultato voluto. Da queste parti si è abituati a ragionare in un'altra maniera: chi rompe, paga. Ma la foga con la quale i vicentini e le migliaia di volontari si sono messi a spazzare il fango non autorizza alcuno a far credere che il problema è risolto. Anche perché si fa presto a cambiare atteggiamento, e passare dalla quiete alla tempesta.

 

7 novembre 2010

 

L'editoriale

TRE MESSAGGI NEL FIUME di Ario Gervasutti

 

Vorremmo approfittare dell'acqua che sta lentamente scivolando via e affidare alla corrente anche tre messaggi in bottiglia. Il primo è diretto ai vicentini. La tentazione di strepitare è forte, di fronte alla palese sottovalutazione del disastro che si è abbattuto sulla pianura berica: ma derogare ai valori e al modo di vivere che è proprio di queste genti equivarrebbe a un tradimento. Si continui dunque a lavorare duramente e in silenzio, si riportino le case e le fabbriche, i negozi e le coltivazioni nelle condizioni in cui erano una settimana fa. Con un'attenzione in più: le antenne devono essere dritte e costantemente rivolte verso coloro che altrove dovranno fare il loro dovere per dare risposte a chi ha subìto un danno. Questo giornale sarà al loro fianco, e non molleremo la presa.

Il secondo messaggio è affidato ai politici locali. In primo luogo a quelli che hanno una responsabilità diretta sul territorio: sindaci, assessori e consiglieri comunali di ogni colore politico hanno fin qui fatto il possibile per rimediare all'emergenza, e va dato atto alla gran parte di loro che hanno saputo mettere da parte le divisioni per fare fronte comune. Ma ora è il momento di dare continuità al buon senso e all'unità d'intenti: è il momento di mettere sul tavolo le idee per realizzare tutto ciò che serve a impedire il ripetersi di simili catastrofi. Se si deve realizzare un bacino di contenimento, si faccia; se per questo si devono espropriare terreni, si faccia; se si deve riprogettare l'intero corso dei fiumi, si faccia; se si deve impedire che in zone alluvionali si costruiscano case, si faccia; se si devono cambiare le procedure di allarme, si faccia. In una logica collettiva, non più pensando che gli interessi dei cittadini finiscano al confine comunale perché tanto le grane sono di quelli più a valle. Anche a costo di rinunciare a un misero e immediato tornaconto elettorale.

Il terzo messaggio è per i politici vicentini che ci rappresentano a Venezia e a Roma. Devono innanzitutto resistere alla tentazione di incrinare il fronte compatto che si è formato per inseguire un titolo o una foto sul giornale con fughe in avanti individuali. Non sarà un singolo consigliere o un singolo parlamentare a potersi investire del merito di aver ottenuto qualche risultato: certe cose si ottengono muovendosi tutti insieme. Come fanno i siciliani, i calabresi, i campani. E devono poi martellare e martellare i loro colleghi in parlamento e nel Governo nazionale concordando una sola linea. Si può tenere qui una parte delle tasse, o inserire in Finanziaria (c'è tempo fino a metà settimana) una cifra adeguata.

Ognuno di questi messaggi, comunque, contiene un post scriptum. Diretto agli altri, a quelli che hanno girato la testa dall'altra parte e hanno fatto finta di non vedere cos'è successo, alle televisioni e ai presunti giornaloni che ora fingono di correre ai ripari. Una sola parola: grazie. Di fronte a una tragedia, riuscite a far ridere. Ma non è un complimento.

 

 

INTELLETTUALI SENZA APPELLO di Giancarlo Marinelli

 

Se fosse stato il Teatro Valle di Roma ad andare a fondo, oppure il glorioso Teatro Franco Parenti di Milano, la Repubblica o Il Corriere avrebbero intervistato Gigi Proietti o Luca Ronconi per una accorata riflessione sul mare di fango che ha messo in ginocchio «due monumenti storici della scena italiana». Se fosse capitato a Firenze, a Bologna, a Napoli, ma anche ad Ascoli o a Imperia, o al capoluogo meno capoluogo che volete voi, la fila di cittadini, giovani e vecchi, operai ed avvocati, segretarie e badanti, tutti insieme appassionatamente impegnati a pulire la città dalla macerie e dalla melma, avrebbe scatenato le telecamere della Gabanelli, di Santoro, di Matrix pronti ad intonare più o meno la stessa litania: guardate quanto è fiero, eroico, solidale, pieno di dignità questo popolo che si rimbocca le maniche, imbraccia i badili, nonostante i lavativi del Ministero e i birbanti di Stato l'abbiano lasciato solo a sprofondare nelle fogne.

Ed invece è capitato a noi. A Vicenza, ai paesi del basso vicentino, del basso veronese, del basso padovano. Perché in fondo questo siamo, in disprezzo persino della geografia: bassi. Troppo bassi; così bassi che il resto dello Stivale manco ci nota. Non ci vede proprio. Ne sia riprova la surreale telefonata intercorsa tra chi vi scrive e il fratello maggiore Marino, che, residente a Trento, dinnanzi al mio racconto circa la tragedia che tutt'ora incombe su Caldogno piuttosto che su Bovolenta o Saletto, ha esclamato indignato: «Ma come? A sentire la tv sembra sia caduta un pioggerellina!».

Di chi è la colpa, allora? Chi ha deciso che il Teatro Olimpico, (patrimonio del mondo), che il Teatro Astra, (patrimonio della giovinezza), possano tranquillamente annegare nell'oblio senza che i soliti "cento autori" non insultino l'insensibilità del pavido Don AbBondi e la sua proverbiale avarizia nell'elargire fondi a tutela del nostro patrimonio artistico? Di chi è la colpa se la mia amica Elena di Vicenza ha mollato figli e marito e nonni per lavorare giorno e notte come volontaria nella palude vicentina, senza che un solo media nazionale l'abbia immortalata nel suo quotidiano sacrificio? A sentire un maestro come Ferdinando Camon, in buona sostanza, la colpa è nostra. Non facciamo altro che lamentarci, minacciare la Secessione, insultare la bandiera italiana, vagheggiare la Repubblica di Weimar: non indigniamoci poi se i nostri connazionali si commuovono più per i bimbi di Haiti o per le vittime dello Tsunami. È una conseguenza naturale.

Sulla scia di questo assunto si è mosso un comitato di Intellettuali e Industriali che, quasi a voler usare la calamità per dimostrare che in Veneto gli imprenditori e gli artisti siano una cosa sola, (peccato che l'immagine del Veneto fuori dai confini sia esattamente il contrario: e cioè una regione in cui "i polentoni" sacrificherebbero la moglie e la vita per la Coltura, ma nemmeno un cespuglio del pelo del gatto per la Cultura), hanno vergato un comunicato atto a sensibilizzare il Bel Paese circa gli umidi tormenti che hanno devastato la terra di Palladio, Goldoni, e, perché no, vista la fattispecie tremendamente acquifera, della donna anfibio Federica Pellegrini.

A chi hanno indirizzato il loro atto di sensibilità? Al Corriere della Sera, che ha definito il loro un «appello di industriali e intellettuali veneti». Ecco, quel «veneti» dice tutto. In situazioni analoghe non esisterebbero intellettuali «romani» o «milanesi», ma intellettuali punto e basta. E imprenditori punto e basta. Così l'appello in questione diventa un autoinserimento nel ghetto, viene usato ancora una volta per marcare le distanze e fa passare i firmatari per un gruppetto di provinciali un po' più accettabili e perciò in grado di essere ascoltati.

Ringraziamo sentitamente questo comitato, così come il governo per le briciole che ha voluto stanziare; ringraziamo sentitamente i nostri ministri veneti che hanno battuto i pugni sul tavolo di Tremonti (beninteso, con quei fondi riusciremo sì e no a pagare la benzina delle ruspe); ci piacerebbe però che qualcuno, ogni tanto, senza necessità di intermediazioni intellettual-industriali, ringraziasse anche noi che sempre abbiamo pagato, che sempre abbiamo sostenuto, che sempre siamo stati solidali e sensibili quando le sventure sono capitate agli altri; noi che ogni giorno, ogni mese, ogni anno, siamo così solidali e sensibili da mantenere buona parte d'Italia; noi che a buona parte dell'Italia e del mondo insegniamo a scrivere un libro, a comporre una sinfonia, a costruire una cattedrale. A morire e a risorgere dal fango. Noi così italiani, nonostante l'Italia.

 

8 novembre 2010

 

L'editoriale

GLI INUTILI PENULTIMATUM di Federico Guiglia

 

Botta e risposta roboanti, ma non siamo all'ultimo atto della telenovela. Con un intervento duro più nel contenuto che nella forma, e perciò molto duro, Fini ha dunque chiesto a Berlusconi di dimettersi e di aprire la crisi. A questo punto i finiani potrebbero siglare il nuovo patto di legislatura proposto dal presidente del Consiglio, cambiando inoltre la formula e soprattutto gli equilibri nel governo, oggi troppo filo-leghista. Tradotto dal loro politichese: un Berlusconi-bis con l'Udc riscuoterebbe l'appoggio del Fli.

Altrimenti? Altrimenti i ministri e i sottosegretari di Fini lasceranno l'esecutivo, ha minacciato il presidente della Camera. Ma Berlusconi ha scelto l'«altrimenti». A stretto giro di posta, infatti, il presidente del Consiglio ha fatto sapere al suo sempre più «ex» alleato, che c'è un solo modo per mandare a casa il governo: votargli la sfiducia in Parlamento. E, a quel punto, ci sarebbe una sola alternativa, ha ribadito il Cavaliere: le elezioni anticipate. Anche l'eventualità che i finiani restino un partito solo di lotta, ma non più di governo, non sembra preoccupare Berlusconi. Si limiterebbe a sostituire i ministri e i sottosegretari dimessi con altri candidati. E subito, non com'è successo con il ministero dello Sviluppo.

Neanche la requisitoria di Perugia, dove ieri Fini ha tenuto a battesimo il partito, ha chiuso la partita in un modo o nell'altro. Tant'è che il centro-sinistra, l'opposizione che non riesce a essere opposizione quanto lo è Fini - altro paradosso -, ha reagito con malcelata delusione. «A furia di passarselo, il cerino si sta spegnendo», per dirla con Bersani (Pd). Significativa anche l'ironia di Bossi, che ha precisato di voler stare «dietro il cespuglio», cioè in silenzio e in attesa.

Ma il tira e molla avvicina il voto anticipato, la vecchia e mai abbandonata preferenza dei leghisti. La sfida del presidente della Camera è l'ennesima conferma di un rapporto consumato quanto il cerino evocato da Bersani. E allora non si comprende come potrebbe il Fli, pronto a uscire dalla porta dell'esecutivo-Berlusconi, rientrare dalla finestra di un Berlusconi più grande, allargato all'Udc, se sono proprio il ruolo e la figura dell'attuale premier - come è apparso chiaro dalle parole di Fini - la causa del profondo malessere. L'affondo di Fini non è, quindi, un ultimatum, perché le parti in scena si rovesciano i ruoli, e potrebbe essere Berlusconi a rivendicare d'aver fatto lui all'ex l'ultimatum «a votargli contro» alle Camere. Un gioco irritante e irrituale, trattandosi del braccio di ferro tra due alte cariche dello Stato. Un gioco nel quale ciascuno cerca di scaricare sull'altro la responsabilità nell'apertura della crisi.

Mentre il duello di «alta politica» è in pieno corso, ai duellanti sfuggono le preoccupazioni terra-terra dei cittadini veneti: come se l'aiuto ridicolo previsto dallo Stato a favore dei territori sommersi dal fango non dovessero rientrare di gran corsa nella pur tanto invocata «agenda» del governo.

 

Corsivo

C'È VERGOGNA E VERGOGNA di Ario Gervasutti

 

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha definito il crollo della Schola Armatorum di Pompei «una vergogna per l'Italia». In effetti è vergognoso che un Paese non riesca a preservare patrimoni dell'umanità come la casa dei gladiatori romani inceneriti dall'eruzione del Vesuvio quasi duemila anni fa. Siamo perciò certi che giovedì, quando sarà a Padova, il Capo dello Stato userà la stessa definizione per l'Italia che ha girato la testa dall'altra parte mentre il Veneto annaspava, per quelli che hanno aperto la pagina Facebook intitolata "Contribuiamo ad allagare il Veneto, pisciamoci sopra", per quelli che fingono di non averla letta, per quelli che se fosse esondato il Tevere ci avrebbero inondato di dirette, per quelli che mentre una regione annega si occupano di giochini politici, per quelli che si vergognano a corrente alternata. Sì, siamo certi che lo farà.

 

9 novembre 2010

 

L'editoriale

LA FERITA DA SANARE di Ario Gervasutti

 

Ne eravamo certi. Giorgio Napolitano ha il senso dello Stato e quando ieri mattina ha avuto la conferma che la rabbia del Veneto aveva raggiunto il livello di guardia, ha cambiato i programmi: giovedì sarà a Vicenza tra gli alluvionati. Sa bene che questa non è gente che strepita a vuoto: il disinteresse con il quale il resto del Paese sta affrontando il disastro che ha colpito mezza regione ha provocato reazioni dure e soprattutto senza distinzione di colore politico o ceto sociale. Sono indignati gli operai e gli imprenditori, gli alluvionati e coloro che non hanno avuto alcun danno, la destra e la sinistra. È la rabbia di chi si sente tradito perché è sempre stato generoso e altruista di fronte a tragedie che hanno ferito altre terre; è la rabbia di chi è largamente in credito tra quanto dà e quanto riceve, ma nell'ora del bisogno si sente ignorato.

Qui era a rischio la tenuta del patto sociale che sta alla base di qualsiasi nazione moderna: non esistono cittadini di serie A e cittadini di serie B. Per una lunga settimana c'è stata la netta sensazione che l'errore di valutazione non fosse del tutto involontario. La distanza tra il Veneto e certi Palazzi non si misura solo in chilometri.

Vittima di questo corto circuito mediatico e culturale è stata anche la classe politica: da queste parti si sono fatti vedere Maurizio Gasparri ed Enrico Letta, sorpresi a loro volta nel trovarsi di fronte a situazioni che non immaginavano. Per il resto, silenzio. I partiti impegnati in convention in mezza Italia hanno avuto un pensiero per tutto, tranne che per le emergenze di alcune decine di migliaia di persone. Il governo ha spedito Bertolaso, il quale si è reso subito conto della situazione e quando è ritornato a Roma si è fatto sentire. Presi così, su due piedi, i ministri hanno mandato il loro collega veneto Sacconi con un pugno di euro. Oggi però arrivano Berlusconi e Bossi. Poiché siamo a conoscenza nei dettagli dei meccanismi paralleli che hanno mosso sia gli uomini del Pdl che quelli della Lega, possiamo testimoniare personalmente che la decisione della visita era stata presa già venerdì scorso. Il sabato e la domenica sono stati però occupati dall'"evento" dei finiani che ha messo in fibrillazione lo stesso governo: comprensibile quindi che l'attenzione del premier sia stata calamitata altrove. Comprensibile, ma non condivisibile. Anche dal punto di vista mediatico: quale miglior risposta avrebbe potuto arrivare dal "governo del fare" di fonte alle accuse di inerzia piovute dagli alleati riottosi, se non una contemporanea presenza al fianco dei veneti che spalavano fango?

Ma questo, ormai, è il passato. Ciò che conta è l'oggi, con una doppia visita che testimonia la volontà di recuperare il distacco dei giorni scorsi. Soprattutto, conta il domani: quando le promesse dovranno trasformarsi in fatti. Solo a quel punto, la ferita aperta sarà sanata. Senza rancore.

 

10 novembre 2010

 

L'editoriale

PROMESSE E SCOMMESSE di Ario Gervasutti

 

Che cosa resta del passaggio di Silvio Berlusconi e di Umberto Bossi a Vicenza e nelle altre zone allagate del Veneto? Resta la sensazione di aver assistito a un rituale tanto doveroso quanto tardivo. Ma anche la sensazione che sia il governo sia queste terre sono di fronte a un bivio: perché è ormai chiaro che se le risposte concrete non arriveranno al più presto, e se le parole di ieri non si trasformeranno subito in fatti, il distacco sarà incolmabile.

Diciamolo francamente: le visite istituzionali di questo tipo hanno un valore molto simbolico e poco operativo. Berlusconi o chi per esso non ha certo bisogno di toccare con mano il fango per avere la percezione esatta di quel che è accaduto. Tantopiù che questi blitz avvengono quando ormai la melma si è in gran parte ritirata grazie al fatto che i veneti non stanno con le mani in mano. Ma sono visite che servono per dare ai cittadini la percezione che le istituzioni sono vicine, ed è per questo che è stato un errore non fare questo viaggio una settimana fa.

Comunque, l'importante è che alla fine ci sia stato il pubblico riconoscimento di un dramma collettivo dalle dimensioni eccezionali. La contestazione organizzata da una trentina di No Dal Molin è stata una scontata caduta di stile che non rappresenta la civiltà dei vicentini nè vanifica una settimana di dignitosa e perciò più incisiva e utile protesta. Se si accusa qualcuno perché non si fa vedere, non lo si può contestare la volta in cui questo si decide a venire: speriamo che almeno in occasione dell'arrivo del Capo dello Stato la coerenza ritorni a prevalere.

Detto questo, ieri il governo per voce del suo primo ministro ha riconosciuto il dramma e ha garantito che se il conto dei danni sarà quantificato al più presto, la prossima settimana il rimborso potrà già essere inserito nella legge Finanziaria. Quindi ora spetta agli amministratori locali raccogliere i dati reali e consegnarli in fretta al governatore Zaia che già oggi sarà a Roma per un primo confronto sui numeri. L'importante è che siano mantenute la compattezza e la trasversalità politica che fino ad ora hanno contraddistinto le mosse di quasi tutti i politici. Un segnale pericoloso in questo senso arriva da Padova, dove il sindaco Zanonato al termine dell'incontro con Berlusconi e Bossi ha detto che il governo ha promesso «solo a parole» la possibilità di contrarre debito per un miliardo per aiutare le popolazioni colpite. Come dice lo stesso Zanonato, «non si può confondere il dibattito politico-istituzionale con la propaganda». Ma vale per tutti: stabilire a priori che quelle di Berlusconi sono solo «parole» ha il sapore di una polemica politica. Se sono «parole» quelle di Berlusconi, lo sono anche quelle di chi non crede che manterrà le promesse. In realtà, soltanto i fatti hanno valore: basterà aspettare una settimana o dieci giorni. Poi vedremo chi ha vinto la scommessa.

 

11 novembre 2010

 

L'editoriale

GLI EQUIVOCI DA CHIARIRE di Ario Gervasutti

 

A dieci giorni dal disastro arrivano le prime risposte del Paese ai timori dei veneti che si sono sentiti ignorati e abbandonati a se stessi. La rabbia crescente della quale questo giornale si è fatto interprete era figlia della sufficienza con cui l'alluvione è stata inserita nell'agenda dei media e della politica nazionale. Soprattutto ha sconcertato il confronto con le reazioni seguite ad altre vicende, in altri luoghi.

Martedì il governo ha voluto portare un messaggio attraverso la presenza di Berlusconi e Bossi. La risposta che hanno avuto è stata chiara: grazie per la visita, ma qui c'è bisogno di fatti. Ieri si è già avuta la prima conseguenza: sono stati stanziati 300 milioni di euro, ai quali andranno ad aggiungersi altri fondi non appena ci sarà una lista ufficiale e definitiva dei danni. Ora si comincia a ragionare, fermo restando che è una cifra sufficiente a malapena per due soli tra i comuni - Vicenza e Caldogno - che hanno già ultimato la conta. Ma poiché alle parole sono seguiti i fatti, ora dobbiamo credere anche alla promessa di ulteriori e definitivi stanziamenti. Credere e controllare.

Oggi arriva il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a chiudere autorevolmente la ferita morale che si era aperta nei rapporti tra il Veneto e il resto del Paese. Vicenza ne approfitterà per ringraziarlo e spiegargli le vere ragioni di questa incomprensione. A partire da alcuni chiarimenti. Qui non siamo di fronte alle conseguenze di abusi edilizi diffusi, ma all'assenza di investimenti in opere pubbliche a protezione di aree lecitamente edificate. Il Veneto poi non è annegato in pochi millimetri d'acqua, ma sotto mezzo metro di pioggia in 24 ore più mezzo metro di neve che si è contemporaneamente sciolta. E i veneti non hanno fatto il diavolo a quattro perché nessuno se li filava, ma perché vogliono essere messi nelle condizioni di non dover chiedere aiuto. Questi equivoci hanno portato alla convinzione che queste genti adesso si siano piegate a pretendere i soldi dello Stato dopo averlo a lungo sdegnato. Non è così, nè è vero che pensano di non pagare le tasse.

Semplicemente, chiedono di poter usare una parte dei propri soldi per riprendere da subito a dare il proprio contributo alla collettività, attraverso il frutto del lavoro. È questo il senso vero del federalismo così come lo ha tratteggiato più volte il Capo dello Stato. L'alluvione è un'emergenza, e come tale richiede uno sforzo di flessibilità e innovazione. Ci sono molti modi per dare seguito a questo sforzo: ad esempio la sospensione del pagamento dell'anticipo delle tasse in scadenza il 30 novembre, il versamento della quota in una cassa ad hoc per i danni pubblici istituita dalla Regione, sono proposte e non proteste. E non hanno niente a che fare con secessioni o con il venir meno del patto di solidarietà tra tutti gli italiani. Il Veneto non si tirerà mai indietro: ma vorrebbe poter fare qualche passo in avanti.

 

12 novembre 2010

 

Corsivo

LE CONDIZIONI NECESSARIE di Ario Gervasutti

 

Ci voleva il passaggio di Giorgio Napolitano per vedere finalmente espressi i sentimenti che legano Vicenza al resto del Paese e che dovrebbero legare l'Italia al Veneto. Il Capo dello Stato ha avuto parole chiare di comprensione e supporto verso i cittadini e i sindaci alluvionati. Certo, è forte il contrasto con il clima che ha accolto il giorno precedente la visita di Berlusconi e Bossi. Non si può non notare un paradosso: chi è venuto a portare soldi (300 milioni, non bruscolini) è stato perfino contestato, chi invece è venuto a portare solo una testimonianza di affetto è stato accolto con un'ovazione. Ma è un paradosso solo apparente: governare è un mestiere ingrato. E la fiducia non si conquista solo con i soldi, che sono una condizione necessaria ma non sufficiente. Il resto appartiene alle schermaglie politiche, di fronte alle quali chi è stato travolto da un'alluvione non può che rimanere sostanzialmente indifferente. A meno che le schermaglie, insieme con il governo, non si portino via anche i 300 milioni promessi per cominciare a ricostruire un pezzo di Veneto. Nel qual caso oltre ai danni ci sarebbe una beffa difficile da sopportare.

 

 

 

 

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