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La ricorrenza

«Ho il cancro». Cinquant’anni fa la frase del giornalista Ghirotti che cambiò la tv

Ghirotti fu inviato de Il Giornale di Vicenza. Da quella trasmissione Rai, al via l’inchiesta che diede voce ai malati e influì sulla riforma sanitaria
Nella foto d'archivio, Gigi Ghirotti al lavoro in una camera d’ospedale durante le terapie anti-cancro
Nella foto d'archivio, Gigi Ghirotti al lavoro in una camera d’ospedale durante le terapie anti-cancro
Nella foto d'archivio, Gigi Ghirotti al lavoro in una camera d’ospedale durante le terapie anti-cancro
Nella foto d'archivio, Gigi Ghirotti al lavoro in una camera d’ospedale durante le terapie anti-cancro

«Ho il cancro e lo so, parliamone insieme». Otto parole secche, il manifesto programmatico di ciò che dovrebbe fare un giornalista: chiamare le cose con il loro nome, senza perifrasi, e spiegarle in termini semplici, senza censure. Le pronunciava in televisione Gigi Ghirotti, indimenticato inviato prima de Il Giornale di Vicenza e poi de La Stampa, esattamente cinquant’anni fa. Erano le 22,20 del 27 maggio 1973, la trasmissione era “Orizzonti della scienza e della tecnica”, un titolo storico della Rai, ma una cenerentola, su quello che allora si chiamava Secondo canale, contro la corazzata della Domenica Sportiva, in onda sul Primo. Ghirotti apparve scarruffato, in pigiama, vestaglia e pantofole. E partì da lì la sua memorabile inchiesta da malato sulla sanità italiana, oncologica e non, che resta un caposaldo nella storia del giornalismo ma contribuì anche in modo decisivo alla riforma del servizio sanitario nazionale.

Gigi Rigotti (Teche Rai)

La prima volta che venne pronunciato il termine “cancro” in tv

Quelle semplici parole ebbero un effetto profondo in un’Italia alle prese con il terrorismo (la bomba alle commemorazioni per il commissario Calabresi è di pochi giorni prima) e alla vigilia dell’austerity. Era la prima volta che veniva pronunciato il termine “cancro” in un contesto televisivo. Tutta l’informazione era abituata ad arrampicarsi in giri di parole come «male incurabile» e affini. Non esistevano né social né dati Auditel, ma scattò il tam tam, e in tutta la Penisola a decine di migliaia cambiarono canale, tradendo il calcio e passando a seguire cosa stava raccontando quel cronista coraggioso, che dava voce a tutti i malati più fragili. E che da quella frase sarebbe partito, macchina da scrivere in resta, a raccontare davvero dal di dentro la sua esperienza di ospedalizzato alle prese con «il signor Hodgkin», come chiamava spiritosamente il linfoma che lo avrebbe stroncato un anno e due mesi dopo.

Il ricordo di Gigi Ghirotti, giornalista de Il Giornale di Vicenza

La ricorrenza dell’esternazione è stata celebrata ieri mattina nella sala Spadolini del Collegio Romano, alla presenza del ministro alla Cultura Gennaro Sangiuliano, di altri vertici istituzionali e di giornalisti prestigiosi della Fondazione Ghirotti, tra i quali gli ex presidenti Bruno Vespa ed Emilio Carelli e l’attuale Vincenzo Morgante. Tra gli altri impegni, la Fondazione offre da quasi vent’anni sostegno telefonico ai malati di tumore.

Vicentinità

Tra gli storici colleghi de La Stampa, Alberto Sinigaglia, a lungo capo delle pagine culturali nelle quali venivano pubblicate le puntate del reportage. «Questo mi permise un rapporto privilegiato con Gigi - ricorda commosso - che anche quando stava male scherzava e mi suggeriva i titoli, spronandomi in dialetto: “Dai toso, dai”. Sì, perché la parlata vicentina era diventata quasi una seconda lingua in quella redazione che curava anche Tuttolibri e che dunque contava, tra collaboratori e amici, anche Mario Rigoni Stern, Neri Pozza, Luigi Meneghello, Renato Ghiotto, Guido Piovene. Anzi, le poche volte che Gigi andava a ritemprarsi per qualche giorno sull’Altopiano, Rigoni Stern gli raccontava quella Storia di Tönle che poi sarebbe diventata uno dei suoi più bei romanzi».

Sostegno

«Non si contano le persone che diedero appoggio convinto a Ghirotti - fa eco Giuseppe Guerrera, segretario della Fondazione che ha voluto aprire la commemorazione anche alle nuove leve del giornalismo incastonandola in un corso professionale -: dal presidente della Repubblica Giovanni Leone a Umberto Veronesi, da Rita Levi Montalcini a Sergio Zavoli, a Giulio De Benedetti, direttore aristocratico che pure, in passato, lo aveva ammonito con le parole “Lei non farà mai carriera parlando degli ultimi”».

La malattia di "Ghiro" al servizio della gente

Il Ghiro, come lo chiamavano ai tempi del liceo, quando vergava impareggiabilmente il giornalino della scuola, in realtà non è mai andato in letargo, nemmeno quando le terapie ne fiaccavano le forze. «Girò quattro ospedali pubblici, si sottopose a una miriade di interventi. Dopo ognuno, tirava fuori da sotto il letto la macchina da scrivere - riprende Guerrera -. Aveva il privilegio di un’assicurazione privata, ma non volle mai usarla per ottenere trattamenti più comodi. Aveva ben chiara la missione di mettere la sua malattia al servizio della gente. Famose, subito dopo la diagnosi, le sue prime parole a Vittorio Gorresio, capo della redazione romana: «“Posso fare un buon servizio, mi hanno trovato un cancro”».

Una lezione su cui meditare anche oggi, quella del Ghiro, per «lottare contro ipocrisie del linguaggio sempre troppo presenti», com’è stato ribadito ieri. 

Alessandro Comin

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