Francesco Sala, docente di Neurochirurgia del dipartimento di Neuroscienze, biomedicina e movimento all'università di Verona, è stato nominato per il biennio 2025-2027 presidente dell'Eans, European Association of Neurosurgical Societies. È la più importante società scientifica continentale in ambito neurochirurgico, coordina 40 società scientifiche europee e con quella Nordamericana rappresenta l'eccellenza della neurochirurgia nel mondo. Francesco Sala è vicentino.
Una famiglia di medici
Come e quando ha deciso che avrebbe fatto il medico?
Al liceo, frequentavo il Quadri. Mio padre era commercialista, ma avevo un nonno medico condotto e soprattutto un prozio, Pier Giuseppe Cevese, professore di Chirurgia all'università di Padova. Quando stavo per iscrivermi a Medicina, lui aveva ormai concluso la carriera. Possedevo una videocamera vhs all'epoca e mi chiese di filmare alcuni interventi per la Scuola di specializzazione in Chirurgia generale che ancora dirigeva. Documentavo pance aperte e suture da una scaletta sopra il lettino chirurgico, restavo lì anche per delle ore.
Un impatto cruento col suo futuro mestiere.
Ma ero allenato dai racconti medici in casa, non mi sono mai impressionato. Quei racconti mi trasmettevano l'importanza del medico nella vita delle persone. Il nonno veniva chiamato nelle famiglie anche per sedare liti fra mariti e mogli, un po' come il prete e il maresciallo nei paesi... Pressioni in famiglia perché diventassi medico non ne ho avute, ma già allo scientifico mi affascinava il mondo delle neuroscienze. Ero indeciso tra Filosofia e Medicina: si dirà che sono discipline distanti, ma ci sono sempre il cervello e il pensiero al centro, un organo e un atto razionale estremamente intriganti.
La vocazione alla Neurochirurgia ne è stata la conseguenza?
Nel 1991 al quinto anno di Medicina a Verona seguivo i corsi di Neurologia, una associazione internazionale propose scambi estivi per studenti universitari e finii a Vienna nella clinica di Neurochirurgia. Un livello altissimo, mi affascinò. Volevo andare oltre le patologie, spesso croniche, che avevo conosciuto a Neurologia; volevo conoscere meglio il sistema nervoso per poter intervenire chirurgicamente e offrire speranze e, spesso, anche la guarigione. Il neurochirurgo nelle emergenze deve decidere in tempi rapidissimi, sui tumori deve esercitare la perizia e l'esperienza. Era proprio quello che avrei voluto fare.
La laurea, poi l'addio a Vicenza
Laurea e specialistica brillanti, ma si è allontanato subito da Vicenza.
Poco prima di specializzarmi ho fatto un passaggio al San Bortolo di Vicenza dal prof. Colombo per capire se c'erano possibilità di proseguire a Vicenza, ma fu il prof. Bricolo di Verona a darmi subito fiducia. La Scuola di neurochirurgia veronese ha una lunga tradizione e sono stato fortunato: tre anni a New York, prima al laboratorio di ricerche della NY University Medical Center, poi al Beth Israel Medical Center. Qui ho trascorso uno dei periodi più belli della mia vita; ero giovane, single, pieno di interessi, nel tempo libero volevo provare cose che non avrei fatto più: come un corso di tip tap. Farà sorridere ma fa parte dei miei ricordi. Nel Duemila sono stato assunto a Verona e fino al 2006 ho fatto il dirigente medico nella Clinica Neurochirurgica. Nel 2003-2004 ho trascorso un altro bellissimo anno all'Hospital for Sick Children di Toronto, un ospedale pediatrico. La Neurochirurgia pediatrica resta la mia principale passione.Intanto mi ero sposato con Elena, biologa, anche lei vicentina e compagna di scuola al Quadri e avevamo avuto il nostro primo figlio, Jacopo. Al ritorno dal Canada è arrivata Camilla e due anni più tardi Mattia. Nel 2006 sono diventato ricercatore al Dipartimento di Scienze neurologiche e del movimento dell'università di Verona, fino al 2014 quando sono diventato professore associato e, nel 2017, ordinario.
Tra ospedale e università
Attività clinica e insegnamento: come si coniugano, visto che siete chiamati ad operare di continuo?
Sulla carta il personale universitario dovrebbe avere un tempo protetto per l'attività scientifica e didattica, ma in Italia non è possibile. Uno il tempo per studiare e per i congressi scientifici se lo deve ritagliare al di fuori dell'attività clinico-assistenziale.
La neurofisiologia intraoperatoria è il campo di ricerca in cui lei è cresciuto.
Monitoriamo durante l'intervento - che può durare ore - l'attività del cervello, del midollo spinale e dei nervi cranici per scongiurare ogni tipo di danno. Verona ha fatto scuola, a volte operiamo col paziente oncologico sveglio per controllare le funzionalità in tempo reale.
Lavorare sul cervello è una responsabilità enorme.
Lo è, anche se poi diventa una routine, lo si fa tutti i giorni. Siamo dei privilegiati nel poter esplorare un organo così delicato e sappiamo che dal nostro operato dipende l'esistenza di un paziente, la sua capacità di interagire, di camminare, parlare. Un errore del chirurgo è pesante, di un neurochirurgo è terribile, ancor più se il paziente è un bambino. Operare su tumori o altre patologie del cervello è anche un privilegio: quello di "toccare con mano" uno degli organi più complessi e in parte sconosciuto del nostro organismo. Cerchiamo la guarigione e la qualità di vita insieme, con tutto quello che comporta per i pazienti e i loro familiari.
Una vita in equilibrio
Riesce a staccare dal peso di questo mestiere?
Mi sono imposto un equilibrio tra lavoro e vita privata, per non essere schiacciato dal coinvolgimento emotivo e fisico. Lavoriamo mediamente 12 ore al giorno e gli specializzandi li avviso: sarà un lavoro appassionante, di sacrificio, ma fatelo col giusto distacco.
Cosa fa per distendersi?
Ho smesso di correre per via del menisco, gioco a tennis e vado in montagna. Il mio ceppo familiare è originario di Borca di Cadore, sotto le Dolomiti mi sento sempre molto bene.
Torna a Vicenza?
I miei genitori abitano sui Berici, ho gli amici delle superiori con i quali trovo subito il feeling di quando eravamo ragazzi, e poi alcuni parenti. Vengo poco, meno di quanto vorrei. Non riconosco più nessun negozio in corso Palladio, mi sento spaesato. A Vicenza mi lega anche un ricordo bellissimo, gli anni al Movimento studenti con don Lino Genero, una realtà umana e formativa che non ho più ritrovato negli anni. Mi considero comunque vicentino a tutti gli effetti.
L'incarico internazionale
La guida della Società europea di Neurochirugia come è arrivata?
Ero nel consiglio direttivo da sei anni, ci sono state regolari elezioni con più candidati. Ho fatto la mia campagna, devo dire violando la mia timidezza, basata sulla mediazione e non sulla ruvidità politica, sull'ascolto e su una mia visione scientifica. Questa società raccoglie 40 realtà diverse in Europa e con quella americana è il luogo più prestigioso per parlare di neurochirurgia al mondo. È andata bene con largo margine e questo mi dà serenità per l'incarico.
Una professione sotto attacco
Che dire degli ospedali da cui i medici fuggono e di un mestiere sempre sotto attacco?
Si è tolta dignità alla professione, siamo sempre più vessati da compiti burocratici. L'aziendalizzazione ha i suoi lati positivi, ma siamo costretti a dedicare tanto tempo a cose che con i malati non c'entrano nulla. E poi la litigiosità medico legale: la medicina è diventata difensiva. Il rischio è che i medici facciamo diagnosi e cure dribblando ciò che può portare guai. La depenalizzazione dell'atto medico che nasce sempre per la vita e per la guarigione, è assolutamente necessaria. Bisogna poter lavorare in serenità, non come dentro un fortino, remunerati il giusto e soprattutto controllando i flussi degli iscritti alle scuole di specializzazione per non creare disoccupati e potenziare le discipline dove c'è bisogno di giovani. Altrimenti non ne usciamo.